giovedì 24 dicembre 2009

La mescolanza

Il sociologo francese Jean-Pierre Courbeau ha elaborato durante le sue ricerche il concetto di «mescolanza», che va ad aggiungersi a quello di incorporazione di Fischler.

Quando mangiamo, introduciamo all'interno di noi stessi qualcosa di altro, di esterno, di diverso da noi. In tal modo produciamo una sorta di miscuglio da cui otterremo un risultato che non sarà più uguale a nessuno dei due elementi di partenza: né il sé, né l'alimento saranno più gli stessi, quelli di prima.

Il sé, incorporando l’alimento, si mescola con l'altro.

Questa alterità è secondo Courbeau articolabile in cinque punti:

1) l’alterità dell’alimento come corpo estraneo (es. l’oggetto mela);

2) quella del «mana» dell’alimento, la sua dimensione magico-simbolica (es. la mela con tutto il suo universo di significati, dalla mela del peccato alla mela di Biancaneve);

3) quella del gruppo che ha deciso di produrre un determinato alimento in un determinato modo (es. la mela biologica raccolta a mano, piuttosto che la mela industriale simbolo di modernità e progresso);

4) quella di chi cucina l’alimento investendolo di carica emotiva (es. la mela che la mamma dà al figlio per merenda come gesto d’amore e di cura);

5) infine l’alterità del commensale (es. la mela mangiata a scuola o la mela divisa a morsi con l’innamorato).

Affinché un cibo sia per noi incorporabile senza ansie, queste mescolanze devono essere culturalmente accettabili. Ed ecco sprigionarsi l’infinita varietà dei repertori gastronomici appartenenti alle più diverse civiltà, gruppi culturali, sociali, familiari, religiosi, ecc…

La persona e il suo corpo non possono essere concepite come entità isolate e autonome. Esse sono immerse in un contesto culturale ben determinato, fatto di tempi, spazi ed altre soggettività con cui identificarsi o differenziarsi.

Se incorporare il cibo è fondamentale per la cura e la costruzione del sé, è anche utile ad inserire l’individuo all’interno di un gruppo sociale e del suo sistema culinario.

L’identità, d’altra parte, è definibile solo in rapporto ad un’alterità.

Il cibo viene così a delinearsi come efficace marcatore di differenze culturali e sociali e, specularmente, come grande elemento coesivo dell’identità di gruppo.

giovedì 17 dicembre 2009

Il biscotto della disperazione

E' un giorno difficile per G.

La mamma non è venuta a prenderla, quando è uscita da scuola. Al suo posto una brutta, brutta e antipatica strega.


"Non ti voglio vicino!" grida G., che nel frattempo si è appiccicata sul viso un muso lungo da "nessuno se ne importa mai niente di quello che vorrei io"...

"Dai, che ci sono anche le focaccine calde. Coraggio, vestiti che fuori fa freddo."

Ma non c'è niente da fare. E' proprio una giornata no.

Non è mica facile avere 4 anni, eh?

Basta ciuccio, basta pianti senza senso, basta pisolini ristoratori.

Bisogna parlare, bisogna fare i grandi, comportarsi bene con le persone. Mica facile.

Comunque.


G. riesce a convincersi ad arrivare a casa, distratta da uno stupido coniglietto tirato fuori da un cilindro nero. Una sorpresa, che poi neanche si rivela un gran che. "Ma come finisce la storia?". Troppo difficile da immaginare.

Insomma, almeno guardiamoci un bel cartone animato!

Direi che per oggi non abbiamo speranze, va bene.

G. resta come ipnotizzata in piedi davanti ad un piccolo computer portatile, minaccia la strega affinchè non emetta un fiato. Poi, si addormenta. Di sasso.

Torna la mamma.

La strega sveglia G. dolcemente.

G. apre gli occhi, ma è ancora immersa nel sogno.

Vede la mamma e l'abbraccia, sperando di poter ripiombrare nel sonno senza colpo ferire. Ma no. Non è questa l'ora. Tra poco si cena.

"Voglio fare merenda! Mamma vieni! Devi venire subito."

Ecco. Ci risiamo. Non si parla così. Si chiede per favore. E poi non è questa l'ora della merenda.

"Ma io voglio la merenda! Devi venire subito."

Si apre la contrattazione. Un solo biscotto, questo è il verdetto finale.

Fra le lacrime, G. siede in attesa che la mamma le porga il dolcetto dell'alleanza, contro la brutta strega, il dolcetto dell'amore, dell'ascolto e della tenerezza.

Ma la mamma sta cercando di sistemare prima una cerniera dei piccoli stivaletti di G. e G. non ha intenzione di pazientare oltre.

La strega si offre di prendere lei il biscotto dalla credenza.

"Noooo! Me lo deve dare la mamma!" e giù strepiti e urla di disperazione.

"Ma G., la strega vuole solo essere gentile..."

"Dai, prendilo... è sempre lo stesso biscotto, non cambia mica se te lo do io!"

Come no, cambia tutto.

domenica 13 dicembre 2009

Gusti e disgusti: gli alimenti estremi


Mangiare non significa solo masticare, ingoiare e digerire, ma anche incorporare. Insieme ad un alimento introduciamo nel nostro intimo credenze, valori, simboli e forze invisibili che hanno potere attivo sulla realtà che ci circonda. Esistono degli alimenti il cui valore simbolico è a tal punto superiore al loro valore in quanto semplici fonti di nutrimento, da renderci disponibili ad “assumerci dei rischi” che normalmente non ci assumeremmo.
Il mercato degli “alimenti estremi” è più vasto di quanto si creda e l’interesse che circonda questo affascinante argomento ha fatto sì che, durante il congresso Le bon produit existe-t-il?, tenutosi a Tours il 30 novembre e 1 dicembre 2007, un nutrito gruppo di persone abbia partecipato all’atelier Ni bons, ni mauvais: les aliments extrême.
Eravamo appunto una ventina di curiosi, attirati dal titolo enigmatico dell’atelier ed ignari di che cosa ci sarebbe stato proposto. Jean-Michel Durivault, nostro anfitrione, dopo averci accolto calorosamente all’ingresso dell’Istituto di Degustazione, ci ha fatti accomodare attorno a tavoli disposti a ferro di cavallo, in modo che tutti potessimo vedere lui, ma al contempo, guardarci tra di noi. Subito siamo stati avvisati del fatto che il laboratorio sarebbe stato ripreso da una telecamera.
Durivault sembrava divertirsi a creare un’atmosfera di tensione tramite la musica che aveva scelto come accompagnamento e l’atteggiamento misterioso che assumeva. Dopo aver introdotto l’argomento del pomeriggio, gli “alimenti estremi” per l’appunto, ci ha informati del fatto che sarebbe stato un laboratorio attivo in cui ognuno di noi avrebbe partecipato. Immediatamente abbiamo intuito che ci sarebbe stato da assaggiare qualcosa di insolito. Ci guardavamo in faccia perplessi, ma sorridenti, in bilico tra la paura e la curiosità. Eravamo in una situazione protetta, certo, nulla di male poteva succederci, ma al contempo il terrore di dover mangiare chissà quali stranezze era forte.
Il primo alimento ci è stato presentato dal cuoco giapponese che lo aveva già preparato.
Il fugu è un pesce estremamente pregiato e costoso, che richiede una lunghissima preparazione ed un savoir-faire particolare. In Giappone esiste una vera e propria prova di abilitazione per poterlo cucinare al pubblico, anche perché, se elaborato in modo non corretto, il pesce palla è mortale: il suo corpo, non espellendo le tossine, contiene in sé una sorta di curaro, veleno capace di portare alla paralisi degli organi vitali. Superando la nostra neofobia in nome della conoscenza, assaggiamo il sashimi di fugu.
Nessuno si sente male, ma nessuno rimane estasiato dal gusto del prelibato pesce: non è il gusto, infatti, a rendere questo alimento un prodotto estremamente richiesto e profumatamente pagato dalle più alte classi giapponesi, ma la presa di rischio che comporta il mangiarlo. Non è la qualità organolettica ciò che conta nel caso degli “alimenti estremi”, bensì il loro valore simbolico, in questo caso il gioco della vita e della morte.
La seconda cosa che abbiamo degustato è stata un’acquavite lasciata macerare per tre anni con immersa nel suo liquido una vipera intera, come una sorta di reperto scientifico in formalina. Anche questa volta il sapore non era niente di incredibile: sapeva molto di alcool e poco di vipera; ma chi mai potrebbe dire che sapore ha la vipera, non avendola mai assaggiata?
Il terzo “alimento estremo” è quello che più ha disgustato le persone a cui ho raccontato la mia esperienza, forse perché difficilmente riusciremmo a trovare un cibo carico di significati simbolici e culturali quanto il latte materno. Esso è il primo contatto vitale con la madre, è il primo alimento di cui ci nutriamo, è stato caricato di virtù medicali, è creatore di figliolanza e di fratellanza – secondo la religione islamica, ad esempio, sono da considerarsi fratelli coloro che hanno bevuto il latte dalla stessa donna, anche se non sono stati partoriti dallo stesso grembo – ed ora è anche un ingrediente di preparazioni culinarie. Il latte che abbiamo assaggiato proveniva infatti da un’azienda – una sorta di banca del latte, con tanto di donatrici anonime – che produce anche formaggi di latte umano. Un’assurdità se pensiamo a quanto siano qualitativamente superiori dal punto di vista organolettico il latte di capra, di pecora o di vacca!
In seguito ci è stato offerto un piatto di fiori, segno di pace.
Quando noi spettatori/attori eravamo ormai rilassati e decisamente neofili, un nuovo problema ci è stato posto: assaggiare alcuni preparati semiliquidi di uso medico, alicamenti ipernutrienti che vengono somministrati per naso o direttamente nello stomaco alle persone che non riuscirebbero a mangiare altrimenti.
La pappa per gatti spalmata su fettine di pane è stata l’unica cosa che io non sono riuscita ad assaggiare: “Va bene tutto, ma io non mangio le stesse cose che mangiano i gatti!”, mi sono detta.
Infine abbiamo assistito ad una scena particolarmente pulp: un assistente di Durivault, mentre questi era intento a soffriggere nel burro un cipolla, si è fatto prelevare del sangue da un’infermiera complice. Il sangue è stato messo in una ciotola e poi in padella. Una volta rappreso è stato servito al donatore che, davanti ai nostri occhi spalancati, lo ha mangiato in un atto di autocannibalismo. Il sangue, forse ancor più del latte materno, è simbolo di vita, di forza ed è, per queste ed altre ragioni, oggetto di interdizioni e restrizioni in molte culture.
Aldilà di quest’ultimo caso, davvero estremo, se rapportiamo quanto detto con il triangolo mangiatore-alimento-situazione, possiamo concludere che, nel nostro caso, i comportamenti neofili e neofobi sono stati influenzati più che altro dalla situazione: immagino che a pochi sarebbe venuto in mente di assaggiare la pappa del proprio gatto per allargare le proprie possibilità alimentari, a meno di non trovarsi in stato di emergenza. Personalmente non avrei mai ordinato al bar un’acquavite alla vipera per pura curiosità. Invece, in un contesto didattico/scientifico, le nostre paure alimentari sono state guidate in un percorso conoscitivo protetto, capace di stimolare un’apertura che nella quotidianità è sicuramente dettata da altri fattori.
L’industria alimentare e la globalizzazione hanno reso l’uomo contemporaneo, appartenente alla cultura cosiddetta occidentale, preda di una sorta di schizofrenia alimentare che oscilla tra una neofobia quasi paranoica, secondo la quale possiamo fidarci solo del cibo che crediamo di conoscere – quello che cuciniamo noi, di cui crediamo di conoscere la provenienza e il modo in cui è stato prodotto e lavorato, ecc… – ed una neofilia esasperata, che ci spinge a provare di tutto, oltre i nostri limiti culturali.
Se l’educazione dei nostri nonni, che hanno vissuto durante la guerra, prevedeva che bisognasse mangiare quello che c’era senza fare storie, adesso possiamo permetterci di essere disgustati davanti ad un piatto di barbabietole o di rognone ed allo stesso tempo di andare alla ricerca di esotismi come la carne di canguro o come le cavallette. A livello nutrizionale non fa per noi molta differenza inserire o togliere dalla nostra dieta cavallette o barbabietole, ma a livello simbolico e sociale incorporare carne di canguro non ha lo stesso valore che ha incorporare barbabietola.
Anche se non tutti possiamo permetterci di cenare ogni sera in un ristorante etnico diverso o da grandi chef che propongono menù a base di fugu, è innegabile che si sia verificata un’estensione di un modello alimentare che prende le distanze dal concetto di cibo come carburante ed aumenta la riflessività su di esso e sulle conseguenze della sua incorporazione. E’ innegabile altresì che questo sia il modello di riferimento per quanto riguarda le nuove forme della neofilia e neofobia alimentare.

mercoledì 9 dicembre 2009

Logica classificatoria e paradosso dell'onnivoro: il cibo come fonte di rischio

Nel 1992 il sociologo francese Claude Fischler raccoglie e sintetizza i risultati di oltre dieci anni di ricerca nell'opera intitolata L'Onnivoro, pubblicata in Italia per Mondadori. Nell'opera Fischler delinea la figura di un «consumatore alimentare eterno», caratterizzato per l’obbedienza ad alcune invarianti: pensiero classificatorio, principio d’incorporazione e paradosso dell’onnivoro. Questi principi si articolerebbero lungo un’asse diacronica (nel tempo) ed un’asse sincronica (nello spazio) che, intersecandosi con i diversi contesti culturali, andrebbero ad identificare i vari «consumatori alimentari» situati, ad esempio in epoca moderna.

La logica classificatoria permetterebbe al mangiatore di suddividere il repertorio di animali e vegetali in commestibile/non commestibile, secondo diversi criteri (da quello estetico a quello igienico, religioso, ecc… ). Ogni cultura in ogni caso sembra creare un proprio registro del commestibile che esclude alcuni alimenti e ne accoglie altri.

Come sottoinsieme del commestibile, troviamo il sistema culinario, che definisce il commestibile/non commestibile in base ai modi di preparazione e di consumo (es. per un italiano la pastasciutta è commestibile se condita con il sugo di pomodoro, ma certo non lo è se la stessa viene condita con interiora di pesce fermentato e servita sul pavimento).

Il rischio e la conseguente angoscia alimentare appaiono connessi alla seconda invariante: l’incorporazione. Il consumatore alimentare eterno attiva, secondo Fischler, quello che gli antropologi hanno battezzato «pensiero magico». Il pensiero magico riferito all’alimentazione e all’incorporazione consisterebbe nella credenza che le qualità simboliche di tutto ciò che entra in contatto con il cibo, come gli strumenti di preparazione o le persone che cucinano o manipolano gli alimenti, siano trasferibili per «contamina
zione simbolica» al cibo stesso. Mangiando, introduciamo nella nostra vita corporea più intima un elemento estraneo, che varca il confine tra dentro e fuori, tra io e non io. Superando la soglia liminale della bocca che divide noi dal mondo esterno, l’alimento è in grado di trasformarci e ricrearci, contaminandoci con le sue qualità. Ne deriva che mangiando siamo passibili di contaminazioni positive o negative e che se non sappiamo cosa mangiamo, non sappiamo chi siamo.

Possiamo così individuare una prima ansia alimentare: quella connessa alla sfera identitaria.

Il «paradosso dell’onnivoro», anch’esso fonte di grande ansia per il consumatore alimentare eterno, consisterebbe invece nell’oscillazione fra due tendenze: «neofilia» e «neofobia», necessità di aumentare la gamma del commestibile e paura di incorporare alimenti sconosciuti, potenzialmente dannosi sia dal punto di vista simbolico sia da quello più propriamente fisiologico (rischio di avvelenamento). Nel contesto contemporaneo delle società dell’abbondanza, nelle quali il legame tra produzione e consumo è molto più lasco che in passato, le ansie alimentari sembrano aumentare, o perlomeno, mutare aspetto.
Beardsworth [cfr. Poulain, 2008, Alimentazione, cultura e società, Il Mulino, Bologna] distingue tre ambivalenze dell’alimentazione umana a cui corrispondono diverse forme d’ansia e di gestione della stessa.

La prima è l’ambivalenza piacere/dispiacere da cui deriva un’ansia di tipo sensoriale ed edonistico. Il cibo può infatti essere g
radevole, può riempire lo stomaco, soddisfare i sensi e ristorare lo spirito, ma può anche essere disgustoso e rivoltante fino a provocare malessere e nausea. Ogni cultura ha creato un corpus di norme culinarie, cioè di regole di preparazione, cottura e condimento, che possono rassicurare il mangiatore rispetto all’inserimento di un nuovo alimento nella sua dieta, se preparato, appunto, secondo tecniche a lui familiari.

Gli alimenti sono fonte di energia, vitalità e
salute, ma al contempo possono essere veicolo di intossicazioni e causa di malattie, ecco la seconda ansia scaturire dall’ambivalenza salute/malattia. Per far fronte a questa angoscia le società umane dispongono di tecniche di lavorazione del prodotto e di conoscenze basate sulla sperimentazione e accumulate o smentite nel corso dei secoli. Tutte le culture si sono avvalse e si avvalgono tuttora di una dietetica.

La terza ambivalenza riguarda il dualismo vita/morte. L’atto alimentare è indispensabile alla vita, ma implica quasi sem
pre la morte di un altro essere vivente: gli animali che rientrano nella categoria del commestibile. Alcune culture hanno eliminato questo paradosso alla radice attraverso la pratica del vegetarianesimo, altre hanno sviluppato divieti e tecniche rituali volte a rendere moralmente accettabile la morte degli animali.

A queste ambivalenze, che potremmo definire come delle costanti, bisognerebbero aggiungere alcune precisazioni per quanto riguarda la contemporaneità. Consideriamo ciò che Fischler definisce come «gastroanomia», cioè una nuova fonte di angoscia alimentare che caratterizzerebbe le società dell’abbondanza, dove l’interesse per il discorso alimentare cresce di pari passo all’allentamento dei controlli sociali che regolamentano le categorie invarianti del consumatore alimentare eterno.

Per effettuare le scelte alimentari, il consumatore odierno – sempre più atomizzato e svincolato da norme sociali condivise – non dispone più di un sistema di criteri univoci e coerenti, ma viene piuttosto indirizzato, influenzato e guidato da una pluralità di voci, spesso contraddittorie, trovandosi così in una «curiosa situazione in cui lo spazio decisionale alimentare si sarebbe sviluppato insieme alla perdita di sicurezza garantita da un da un sistema di norme socialmente definito» [Poulain, 2008].

La contemporaneità si caratterizza dunque per un'esponenziale crescita delle possibilità di scelta e parallelamente per una mancanza (o sovrabbondanza) di criteri. Questa situazione, valida per il campo alimentare come per molti altri aspetti della nostra vita quotidiana, non fa altro che aumentare la nostra sensazione di angoscia, amplificata poi ulteriormente in una sorta di circolo vizioso, dagli allarmismi mediatici.

venerdì 4 dicembre 2009

Formaggi e peccati

Siamo in undici. Chiaro segno che c'è qualcuno spaiato. (Io). Il tavolo è lungo, affiancato da due panche di legno che assomigliano a quelle scure delle chiese. Dev'essere un rito importante, penso, mentre osservo indiscreta l'architettura della stanza. Soffitto basso, a volta, una stufa a legna rende il piccolo ambiente ben più caldo del resto della casa. Alle pareti una bottiglia di Barbera del '78 in buona compagnia, collezioni di cavatappi dalle forme più ingegnose.

Aspettiamo i ritardatari prima di prendere posto. Leggiamo il menù scritto a mano su un foglio di carta a quadretti. Interessante. Il re della serata, il formaggio.

Bene, ci siamo. Sono arrivati tutti, sediamoci! Allora, le coppie vicine, i padroni di casa – in veste di cuochi, sommelier, camerieri ed anfitrioni – in posizione strategica, gli uomini più pingui a capotavola o sull'angolo. Ognuno trova lo spazio che sembra essere stato fatto apposta per lui: la scelta non è casuale, sembra che il nome stia scritto proprio lì, nel bicchiere che troneggia sulla tovaglia a scacchi bianchi e rossi, senza bisogno di contese.

Iniziamo. Primo giro di vino. Bianco. Aromatico e delicato. Antipasti. Secondo giro di bianco. Terzo giro. Apriamo un'altra bottiglia? Quarto giro. Sempre bianco, ma più corposo.

Nel vociare generale si distinguono apprezzamenti sul cibo, racconti di matrimoni e viaggi, risa, poi, ovviamente, il lavoro, i figli. Intanto arriva il primo e si stappa il rosso, Nebbiolo.

Fa caldo e il suono delle parole inizia ad invadere prepotentemente l'aria. Rimbomba. Avventure in bicicletta. Tornanti. Ricordi di allegre sbronze, di altre cene, in altri tempi.

Chi vuole il bis? Forza, che poi inizia la passerella di formaggi!

Abiti confezionati dagli stilisti più ispirati. C'è il pecorino pulito e ben vestito, semplice. E la dama dai tre latti, con una gonna ampia e a balze che ricorda quelle delle nobildonne di Versailles. La scamorza rotonda e soda, come una mongolfiera sospesa sul tagliere. Il puzzone, un vecchio sudato e unto. Alcuni indugiano. Bagnarsi del viola della saba, o indorarsi di miele bruno di castagno?

Qualcuno tossisce e ridacchia. La gola è un po' asciutta, bisognerebbe proprio innaffiarla. Si stappa la sesta. Il volume sale ancora. Voci da tenori si sovrappongono in armonici sgraziati.

Esco a prendere una boccata d'aria. O meglio. A fumare.

Piove forte. Piccoli torrenti scendono illuminati dai lampioni ramati sul nero della strada. Sembra che danzino. La fila degli uomini in smoking si avvicina a quella delle donne con la gonna a pallone, camminano veloci e parallele. Poi la coppia si prende la mano e diventa un unica bolla d'acqua. Felice. Mi chiedo dove mai staranno andando.

Rientro.

Qualcuno ha trovato il tasto giusto. Inizia la discussione. Ormai i ventri sono tesi e il palato stanco. La lingua, invece, ha decisamente bisogno di sgranchirsi un po', d'altra parte non esiste simposio che si rispetti senza un po' di filosofia. Politica.

Argomento della settimana italiana: politici e scandali.

Cibo e sesso, eccoci. Le cose imprescindibili che uniscono uomini ed animali dell'intero pianeta. Ci distinguiamo non per averne fatto oggetti eterni di pratiche, ma di riflessioni. Come per i formaggi e i vini, ognuno ha i suoi gusti.

Vogliamo parlare di transessualità? Dopotutto, le prostitute e i freaks, ancora non hanno perso l'abitudine di frequentare i nostri banchetti. Sembrerebbe.

Natura o cultura / crudo o cotto / colpa o perdono / normalità o perversione.

Formaggi e peccati.

Dolce e grappino non bastano a sopire l'avidità di confronto. Il tempo, invece, vince sempre su tutto.

Torno in macchina con l'amaro in bocca. “Anche noi la pensavamo così alla tua età...”

mercoledì 2 dicembre 2009

Il cibo e il sè: identità

Il corpo umano è una realtà vivente e dinamica, non statica.

Proviamo a figurarci le evoluzioni e le trasformazioni che esso subisce nell’arco di una vita: da cellula indifferenziata, a feto, a bambino di pochi chili capace di crescere a vista d’occhio. Con la pubertà vedremo svilupparsi le forme tipiche dell’uomo e della donna adulti, ciascuno con le proprie caratteristiche sessuali. La maturità e la vecchiaia non faranno infine altro che continuare quel processo di incessante trasformazione iniziato con il concepimento.

Tutto questo è estremamente naturale. Quanto c’è di più naturale di ciò che è inscritto nel nostro codice genetico? Tuttavia il nostro corpo è capace di veicolare segnali e significati che vanno ben oltre la ’naturalità’, per sconfinare nella dimensione più propriamente culturale.

Non è difficile notare la varietà delle forme e dei gesti che ci circondano, le molteplici risposte creative e le strategie che ciascuno di noi mette in atto per modellare il proprio corpo ad immagine e somiglianza del proprio gusto e del proprio progetto identitario. Potremmo pensare al corpo come un work in progress.

E' intuibile quanto le scelte alimentari siano parte integrante di questo progetto.

La sociologa Deborah Lupton [1996, L’anima nel piatto, Il Mulino, Bologna] afferma che «le abitudini e le preferenze alimentari sono pratiche fondamentali del sé, dirette alla cura di sé attraverso il costante nutrimento del corpo con cibi culturalmente considerati appropriati che, oltre a costruire una fonte di piacere, agiscono simbolicamente per rivelare l’identità di un individuo a se stesso e agli altri». Il cibo e l’alimentazione, letti in questo senso, appaiono elementi centrali per la soggettività, il senso del sé e la «personificazione» – ossia la costruzione della propria persona in senso fisico e simbolico –, in quanto da un lato creano la persona sotto il profilo materiale, corporeo e biologico, dall’altro lo modellano dal punto di vista culturale, morale, etico o spirituale.

Se ormai siamo tutti più o meno coscienti di come le proteine siano i ‘mattoni’ del nostro organismo, i carboidrati la ‘benzina’ e così via, o meglio, se siamo tutti certamente d’accordo sul fatto che il cibo ci occorre da un punto di vista nutrizionale, non è altrettanto diffusa la consapevolezza di quanto sia ugualmente indispensabile ed influente per noi da un punto di vista metafisico.

A questo proposito ci è utile il concetto di incorporazione sviluppato dal sociologo francese Fischler nel corso dei suoi lavori degli anni ’80, raccolti nel saggio dal titolo L'Onnivoro, edito da Mondadori nel 1992. Secondo Fischler gli alimenti – a differenza degli altri beni acquistabili sul mercato contemporaneo – non si limitano ad essere consumati, ma, attraversando la bocca, porta liminale del corpo, entrano a far parte del corpo stesso e diventano così parte integrante dell’identità di colui che mangia. Sul versante psicologico mangiare implicherebbe perciò l’assunzione delle qualità dell’oggetto mangiato anche e soprattutto a livello simbolico. Come dire: chi mangia diviene ciò che mangia.

In termini antropologici questo va a significare che l’uomo mangiatore, inserito in uno spazio alimentare culturalmente determinato, incorpora insieme al cibo che inghiotte anche tutto il sistema di valori che esso rappresenta.

lunedì 26 ottobre 2009

Sale

Benvenuti e benvenute (qualunque sia la ragione per la quale siete capitati su questa pagina del web, tra le infinite possibilità)!

L'intento è quello di scrivere.
Di comunicare con qualcuno. Qualcuno che abbia voglia di leggere e di ascoltare. Di fermarsi per un attimo, e pensare.

E allora cominciamo dal titolo: IL SALE DELLA VITA.

Sale.
Prezioso minerale. Mare. Terra. Sole. Lavoro dell'uomo. Vie del sale. Carovane. Cammelli e asini. Luccichio. Mercati. Scambi. Contaminazioni di parole e di sapori. Storia. Lunga e incisiva.
Sale. Si scioglie sulla lingua mischiato alla saliva. Cristallizza sulla pelle dopo un tuffo o dopo una fatica. Cambia. Scende dalle montagne per riposare in pozze evaporate. Conserva. Asciuga. Paga. Protegge dal male e dal malocchio.
Senza di lui tutto sarebbe sciapo, insipido, inutile.

Che ciascuno possa trovare, nella vita, il suo sale!

Di metafore alimentari ce ne sono tante e ne parleremo.
Ma penso che questa sia la più importante, in questo momento, in questo paese, sotto questo cielo: che ognuno ricominci, instancabilmente e con fiducia, a cercare il suo sale, un minuscolo cristallo opalescente capace di far tornare la voglia di bere la vita d'un fiato e di lasciare, come il sale sulla roccia, un segno.