mercoledì 9 dicembre 2009

Logica classificatoria e paradosso dell'onnivoro: il cibo come fonte di rischio

Nel 1992 il sociologo francese Claude Fischler raccoglie e sintetizza i risultati di oltre dieci anni di ricerca nell'opera intitolata L'Onnivoro, pubblicata in Italia per Mondadori. Nell'opera Fischler delinea la figura di un «consumatore alimentare eterno», caratterizzato per l’obbedienza ad alcune invarianti: pensiero classificatorio, principio d’incorporazione e paradosso dell’onnivoro. Questi principi si articolerebbero lungo un’asse diacronica (nel tempo) ed un’asse sincronica (nello spazio) che, intersecandosi con i diversi contesti culturali, andrebbero ad identificare i vari «consumatori alimentari» situati, ad esempio in epoca moderna.

La logica classificatoria permetterebbe al mangiatore di suddividere il repertorio di animali e vegetali in commestibile/non commestibile, secondo diversi criteri (da quello estetico a quello igienico, religioso, ecc… ). Ogni cultura in ogni caso sembra creare un proprio registro del commestibile che esclude alcuni alimenti e ne accoglie altri.

Come sottoinsieme del commestibile, troviamo il sistema culinario, che definisce il commestibile/non commestibile in base ai modi di preparazione e di consumo (es. per un italiano la pastasciutta è commestibile se condita con il sugo di pomodoro, ma certo non lo è se la stessa viene condita con interiora di pesce fermentato e servita sul pavimento).

Il rischio e la conseguente angoscia alimentare appaiono connessi alla seconda invariante: l’incorporazione. Il consumatore alimentare eterno attiva, secondo Fischler, quello che gli antropologi hanno battezzato «pensiero magico». Il pensiero magico riferito all’alimentazione e all’incorporazione consisterebbe nella credenza che le qualità simboliche di tutto ciò che entra in contatto con il cibo, come gli strumenti di preparazione o le persone che cucinano o manipolano gli alimenti, siano trasferibili per «contamina
zione simbolica» al cibo stesso. Mangiando, introduciamo nella nostra vita corporea più intima un elemento estraneo, che varca il confine tra dentro e fuori, tra io e non io. Superando la soglia liminale della bocca che divide noi dal mondo esterno, l’alimento è in grado di trasformarci e ricrearci, contaminandoci con le sue qualità. Ne deriva che mangiando siamo passibili di contaminazioni positive o negative e che se non sappiamo cosa mangiamo, non sappiamo chi siamo.

Possiamo così individuare una prima ansia alimentare: quella connessa alla sfera identitaria.

Il «paradosso dell’onnivoro», anch’esso fonte di grande ansia per il consumatore alimentare eterno, consisterebbe invece nell’oscillazione fra due tendenze: «neofilia» e «neofobia», necessità di aumentare la gamma del commestibile e paura di incorporare alimenti sconosciuti, potenzialmente dannosi sia dal punto di vista simbolico sia da quello più propriamente fisiologico (rischio di avvelenamento). Nel contesto contemporaneo delle società dell’abbondanza, nelle quali il legame tra produzione e consumo è molto più lasco che in passato, le ansie alimentari sembrano aumentare, o perlomeno, mutare aspetto.
Beardsworth [cfr. Poulain, 2008, Alimentazione, cultura e società, Il Mulino, Bologna] distingue tre ambivalenze dell’alimentazione umana a cui corrispondono diverse forme d’ansia e di gestione della stessa.

La prima è l’ambivalenza piacere/dispiacere da cui deriva un’ansia di tipo sensoriale ed edonistico. Il cibo può infatti essere g
radevole, può riempire lo stomaco, soddisfare i sensi e ristorare lo spirito, ma può anche essere disgustoso e rivoltante fino a provocare malessere e nausea. Ogni cultura ha creato un corpus di norme culinarie, cioè di regole di preparazione, cottura e condimento, che possono rassicurare il mangiatore rispetto all’inserimento di un nuovo alimento nella sua dieta, se preparato, appunto, secondo tecniche a lui familiari.

Gli alimenti sono fonte di energia, vitalità e
salute, ma al contempo possono essere veicolo di intossicazioni e causa di malattie, ecco la seconda ansia scaturire dall’ambivalenza salute/malattia. Per far fronte a questa angoscia le società umane dispongono di tecniche di lavorazione del prodotto e di conoscenze basate sulla sperimentazione e accumulate o smentite nel corso dei secoli. Tutte le culture si sono avvalse e si avvalgono tuttora di una dietetica.

La terza ambivalenza riguarda il dualismo vita/morte. L’atto alimentare è indispensabile alla vita, ma implica quasi sem
pre la morte di un altro essere vivente: gli animali che rientrano nella categoria del commestibile. Alcune culture hanno eliminato questo paradosso alla radice attraverso la pratica del vegetarianesimo, altre hanno sviluppato divieti e tecniche rituali volte a rendere moralmente accettabile la morte degli animali.

A queste ambivalenze, che potremmo definire come delle costanti, bisognerebbero aggiungere alcune precisazioni per quanto riguarda la contemporaneità. Consideriamo ciò che Fischler definisce come «gastroanomia», cioè una nuova fonte di angoscia alimentare che caratterizzerebbe le società dell’abbondanza, dove l’interesse per il discorso alimentare cresce di pari passo all’allentamento dei controlli sociali che regolamentano le categorie invarianti del consumatore alimentare eterno.

Per effettuare le scelte alimentari, il consumatore odierno – sempre più atomizzato e svincolato da norme sociali condivise – non dispone più di un sistema di criteri univoci e coerenti, ma viene piuttosto indirizzato, influenzato e guidato da una pluralità di voci, spesso contraddittorie, trovandosi così in una «curiosa situazione in cui lo spazio decisionale alimentare si sarebbe sviluppato insieme alla perdita di sicurezza garantita da un da un sistema di norme socialmente definito» [Poulain, 2008].

La contemporaneità si caratterizza dunque per un'esponenziale crescita delle possibilità di scelta e parallelamente per una mancanza (o sovrabbondanza) di criteri. Questa situazione, valida per il campo alimentare come per molti altri aspetti della nostra vita quotidiana, non fa altro che aumentare la nostra sensazione di angoscia, amplificata poi ulteriormente in una sorta di circolo vizioso, dagli allarmismi mediatici.

2 commenti:

  1. "Ne deriva che mangiando siamo passibili di contaminazioni positive o negative e che se non sappiamo cosa mangiamo, non sappiamo chi siamo."

    mi sa che sta qui la risposta del perché ho deciso di diventare vegetariana. penso fosse una sfida a capire chi sono davvero. era come pormi la domanda precisa: è che sono qualcuno che non mangia la carne? fino a quanto sono disposta a difendere questa posizione? fino a quanto sono definiti i miei contorni di persona? quanto sono coerente e capace di difenderli?

    una scelta sul cibo contraria a la tendenza comune (qualsiasi essa sia) ti obbliga a risponderti a queste domande. secondo me è un buon esercizio per il proprio io...

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  2. E' sicuramente un buon esercizio imparare a diventarne consapevoli!
    Porsi delle domande, riflettere sulle proprie scelte, sulle proprie motivazioni.
    Bello.

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