venerdì 29 gennaio 2010

Modernità, luce e svago nella Parigi di fine Ottocento: Bal au Moulin de la Galette di Pierre-Auguste Renoir

Siamo nella seconda metà dell’Ottocento, tempi segnati ormai irreversibilmente dal rapido processo di sviluppo industriale avviatosi nel XVIII secolo. Le campagne si spopolano e quelli che furono contadini vanno ora ad ingrassare le periferie delle città, che si fanno sempre più estese. La geografia territoriale si modifica: nascono nuovi centri urbani, soprattutto in corrispondenza delle stazioni ferroviarie, villaggi che un tempo furono nodi commerciali perdono importanza, mentre altri ne acquisiscono.

Questa repentina nascita e crescita delle città non poté non influenzare direttamente architettura ed urbanistica: nuovi spazi, nuove esigenze, nuovi luoghi di lavoro e di socialità andavano progettati e realizzati in tempi brevi. Le arti in genere si arricchirono di nuovi impulsi.

La modernità fu la musa ispiratrice per eccellenza e portò con sé una ventata di cambiamento che travolse la percezione dell’artista rispetto a sé stesso, al suo lavoro, al suo pubblico e alla società intera. A questo proposito è necessario chiarire come le nuove frontiere del nascente capitalismo e del liberalismo selvaggio fossero alla base della mentalità e della realtà di fatto che si andavano affermando, in diretta contrapposizione e dialettica con la diffusione degli ideali socialisti ed anarchici.

Liberalismo e socialismo sono due concetti fondamentali per comprendere la produzione artistica della seconda metà del XIX secolo. Il libero scambio, infatti, aveva permesso a piccoli mercati privati di svilupparsi indipendentemente dai classici canali di comunicazione tra artisti e pubblico, come quelli delle esposizioni universali, accademiche ed ufficiali. Le opere potevano ora trovare nuove vie di circolazione in quanto, sempre più spesso e con facilità, erano considerate vera e propria merce. Questi nuovi circuiti commerciali andarono a creare una frammentazione del pubblico e, soprattutto, dei gusti, e insieme a stringere legami particolarmente saldi tra artista ed affezionati o estimatori.

Il cambiamento dei rapporti tra creatore e pubblico, dato dalla possibilità di sottrarsi alla mediazione delle autorità del settore, non può essere trascurabile in quanto permise agli artisti di sperimentare nuovi soggetti e nuovi linguaggi. Il distacco dai canoni accademici e classici e dalle convenzioni compositive diede infatti impulso ad un nuovo bisogno espressivo ispirato alla modernità. Modernità incarnata dalle grandi capitali europee, metropoli nascenti, che, con nuovi ritmi – velocità e movimento – e nuove percezioni – grandi folle, nuovi spazi – diventano il soggetto pittorico per eccellenza.

Se la metropoli affascina e incanta, allo stesso tempo spaventa e opprime, diventando sì una realtà da amare, ma anche da rifuggire. Ecco che all’opposto della città troviamo la natura intesa come fuga, svago, luogo di rigenerazione e di idealizzazione di un mondo in via di scomparsa.

La scelta di soggetti non più ispirati alla storia o alla mitologia, ma alla vita reale, anche quando non è direttamente dettata dall’impegno politico e sociale, non può prescindere dalla diffusione che il socialismo ebbe in quegli anni. Forse suggerita dal concetto di “committenza ideale” delle masse e delle classi più umili – che sembrano rivendicare un posto nella storia – si va affermando la preferenza per soggetti ispirati alla vita e al lavoro di operai, bambini di strada, donne di servizio, ecc… come quella per supporti e linguaggi che potessero rivolgersi ad un pubblico sempre più vasto.

Gustave Coubert fu, a Parigi, un esempio paradigmatico di tutto questo. Artista con le idee chiare, deciso a rappresentare il ‘vero’ attraverso la natura, senza condizionamenti di sorta, a fare “arte viva” attraverso la quale poter esprimere la propria visione del mondo, fu fortemente criticato dai giudizi dei conservatori, che definirono i suoi lavori con aggettivi quali ‘sconcio’, ‘ignominioso’, ‘indecente’. La peculiarità della sua sfrontatezza era in particolare quella di utilizzare tele molto grandi – in genere riservate alla pittura ‘alta’, in particolare di materia storica – per soggetti volgari. In ogni caso il suo realismo lasciò solchi profondi nella Parigi di fine Ottocento e, in particolare, influenzò quel gruppo di giovani artisti che vennero appellati ‘impressionisti’ in tono dispregiativo, ma che non a caso nei primi tempi della loro produzione erano piuttosto considerati dei naturalisti.

E' in questo periodo che dalla mano di Renoir – membro appunto del circolo degli impressionisti –, nasce il Bal au Mulin de la Galette.


Pierre-Auguste Renoir, Bal au Mulin de la Galette – 1876 – olio su tela – 131x175 cm – Parigi, Musée d’Orsay


Nell’immagine vediamo rappresentata una piazza cittadina affollata da uomini e donne che danzano e conversano. L’atmosfera è rilassata, i visi sono sorridenti. In primo piano un gruppo di amici sta seduto attorno ad un tavolino bevendo qualcosa – forse spremuta d’arancia – in bicchieri di vetro. Tra la folla, alcuni alberi fanno ombra sulla pista da ballo, ci sono dei lampioni spenti e, sullo sfondo, sotto una struttura coperta è intuibile una calca di gente. La piazzetta in questione si trova a Montmartre, presso il famoso mulino. La realtà della scena ritratta è avvalorata dalla presenza, tra il gruppetto di persone in primo piano, di alcuni amici dell’artista: il giornalista Lhote, un gruppo di artisti con il critico Georges Riviére ed il pittore spagnolo Don Pedro Vidal de Solares y Cardenas che danza con una giovane di nome Margot.

Il quadro mostra un tipico esempio della ricerca, avviata in quegli anni da Renoir e della Société anonyme des artistes peintres, sculpteurs, graveurs, etc…1, di una nuova forma percettiva e rappresentativa. Essa si otteneva essenzialmente dipingendo en plain air, tecnica grazie alla quale era possibile sperimentare un nuovo tipo di approccio alla resa pittorica degli effetti luce/ombra. E’ significativo il fatto che gli impressionisti realizzarono diverse opere vicino all’acqua o sulla neve, elementi naturali in grado di generare effetti luminosi particolari, ideali per lo studio dei giochi di luce. La peculiarità stilistica impressionista era quella di non utilizzare toni scuri per le zone buie dei soggetti ritratti. Dipingere all’aperto permetteva di cogliere infinite sfumature, ma, soprattutto, di rendersi conto che l’ombra non è una macchia scura, priva di colore, bensì una zona con una variazione di tonalità, in genere tendente al blu. Abbandonare le tavolozze scure ed i neri che abbondavano nelle opere accademiche rivelò la possibilità di ottenere ugualmente la tridimensionalità, ma attraverso l’impiego dei colori che, al tempo stesso, permettevano un risultato estremamente più luminoso. Osservando il Bal au Mulin de la Galette si ha una netta sensazione del benessere che le persone rappresentate possono provare riparandosi al fresco, sotto le fronde degli alberi che ombreggiano la pista da ballo. Renoir ottiene l’effetto della luce solare che filtra attraverso i rami delle acacie con pennellate di giallo e di arancio sparse sui vestiti della gente e sui loro cappelli e con screziature rosa e lavanda sul terreno che circonda gli unici due danzatori che si vedono per intero. Si ha quasi l’impressione del movimento di riflessi dato dall’ondeggiare delle foglie con la brezza.

La composizione segue una diagonale che va dal primo piano in basso a destra verso lo sfondo in alto a sinistra con andamento curvilineo. Le pennellate sono morbide ed allungate lungo linee verticali ed oblique e conferiscono all’immagine un bel senso di movimento. In sintonia con la visione veloce, distratta e non analitica della realtà, tipica della nuova società urbana, non troviamo cura per il dettaglio, già dal secondo piano i volti si confondono ed i contorni sono sempre meno definiti. Come in un’istantanea scattata in una situazione di movimento, i visi che sono colti fermi risultano a fuoco, mentre la gente che danza, parla o si gira, riesce mossa e quasi sfuocata. La sovrapposizione dei corpi ci lascia percepire l’accalcarsi della folla, soprattutto sullo sfondo, mentre le figure tagliate ai margini del quadro fanno intuire l’estendersi della scena oltre il limite rappresentato.

La frequentazione delle diverse forme di ristorazione fuori casa in Francia era, nel corso del XIX secolo, cresciuta in modo esponenziale insieme alla popolazione urbana. Basti pensare che se nella Parigi del 1830 esisteva un café ogni 116 abitanti, nel 1910 se ne poteva trovare uno ogni 82. Alla fine dell’Ottocento la capitale francese contava circa 3000 café ed oltre 2000 mescite.

Oltre ai café, luogo di ritrovo e di socialità borghese, ed alle taverne di frequentazione popolare, nel corso del XIX secolo si vanno affermando nuove forme di ristoro pubblico in accordo con le nuove esigenze lavorative, ma soprattutto extra lavorative. Si sviluppano molto – in particolare dal 1860 grazie alle innovazioni dei sistemi di refrigerazione – le brasserie, luoghi di produzione, vendita diretta e consumo della birra, in cui è possibile gustare qualche piatto caldo a prezzi accessibili anche alla piccola borghesia e agli studenti. Per comprendere meglio la rapidità con cui si svilupparono locali del genere, basti pensare che la prima brasserie di Parigi fu inaugurata nel 1847 e che già nel 1900 la scelta poteva spaziare tra 2500 locali. Le brasserie diventarono presto luoghi di convivialità e di ritrovo anche per scrittori ed artisti: il circolo impressionista usava, ad esempio, riunirsi attorno ai tavoli del Café Guerbois o del Nouvelle Athenes.

Nella Parigi di quegli anni aumentarono notevolmente anche i ristoranti ed i caffè popolari e si affermarono come luoghi di svago, distrazione e socialità le guinguettes, categoria alla quale possiamo ascrivere il Mulin de la Galette. Le guinguettes erano delle sorte di chioschi all’aperto, spesso situati in periferia o comunque in prossimità di corsi d’acqua, stagni o laghetti: sulle sponde della Senna era facile incontrarne2. Qui si poteva godere del fresco dell’acqua e degli alberi, danzare al ritmo di qualche piccola orchestra musicale e, a prezzi contenuti, si potevano gustare bevande di vario genere insieme a piatti freddi e caldi, ma la specificità erano i cibi locali ed in particolare le fritture di pesci d’acqua dolce. Frequentate inizialmente dai ceti medio borghesi, divennero dopo il 1906 – anno in cui fu istituita ufficialmente la domenica come giorno di risposo settimanale – luoghi ideali per le ‘scampagnate’ anche per le classi operaie, ed i più frequentati da chi voleva passare una giornata dimenticandosi del fragore e dei ritmi estenuanti della vita cittadina.

Il dipinto Bal au Molin de la Galette ben rappresenta l’atmosfera di gioia di coloro che si concedono una pausa dalle occupazioni quotidiane e testimonia la ricerca del benessere, l’allargamento del mercato e la democratizzazione dei consumi che caratterizzarono il XIX secolo.


Bibliografia

De Vecchi Pierluigi, Cerchiari Elda, 2003 [1991], Arte nel tempo. Dall’età dell’Illuminismo al Tardo Ottocento, volume 3, I tomo, Bompiani, Milano.

Bertelli Carlo, Briganti Giuliano, Antonio Giuliano (diretto da), 1992 [1988], Storia dell’arte italiana, volume 4, I tomo, Electa - Bruno Mondadori, Milano.

Appunti del ciclo di lezioni tenute da Jeanne Pierre Williot nel novembre 2007 presso la Maison di Sciences de l’Homme a Tours.

1 La Société fu fondata nel 1874 da Monet, Renoir, Sisley, Pissarro, Degas e Berthe Morisot, allo scopo di esporre le opere del gruppo in una mostra collettiva autorganizzata. Alla prima mostra ne seguirono altre sette a cui, però, non parteciparono sempre gli stessi artisti. Il Bal au Moulin de la Galette venne esposto per la prima volta nel 1877 in occasione della terza collettiva.

2 La Colazione dei Canottieri a Bougival – 1881 – olio su tela – 129x172 cm – Washington, Phillips Memorial Gallery – di Renoir è un perfetto esempio di guinguette lungo la Senna.

lunedì 18 gennaio 2010

Il cibo come oggetto di educazione e i consumi consapevoli


In quanto atto culturale, l'alimentazione non può prescindere dalla dimensione educativa, dalla trasmissione di logiche e valori condivisi da una comunità, piccola o grande che sia. Anche il gusto, se letto in questo senso, assume una nuova sfumatura di significato: ci appare come espressione sì di un’individualità, ma calata e immersa in un contesto sociale e culturale che sia la famiglia, la scuola, gli amici, la regione nella quale si è cresciuti o si abita, la fede religiosa, ecc... «L'uomo è un animale sociale», diceva Aristotele. Inevitabilmente perciò cresce modellandosi ed essendo modellato dalla relazione con gli altri, influenzato e plasmato da una progressiva acquisizione di conoscenze e pratiche derivate dallo scambio intersoggettivo.

Guardiamo all'oggi: viviamo sempre di più in un mondo globalizzato, soprattutto per quanto riguarda l’informazione. Ci accorgiamo che non siamo più legittimati ad ignorare che i nostri stili di vita ed i nostri consumi hanno delle ripercussioni a livello globale. Agli inizi degli anni ’80 abbiamo visto emergere, sotto i nostri occhi di occidentali, il fenomeno di una nuova povertà, che assume sempre più le sfumature del paradosso se raffrontata agli immensi sprechi di un surplus alimentare che viene letteralmente distrutto allo scopo di mantenere stabili i prezzi dei mercati europei. Nel 1996 è scoppiata la crisi della mucca pazza, seguita dal dibattito sugli Ogm. I media hanno portato alla ribalta notizie come l’impiego di farine animali nei nutrimenti dei bovini, l’aumento dell’obesità infantile, la disinformazione dei consumatori sulle filiere alimentari, il cambiamento climatico, lo sfruttamento dei lavoratori ad opera di alcune multinazionali, i potenziali rischi per la salute causati ad esempio da un consumo elevato di alimenti che contengono additivi e così via, contribuendo così a diffondere una sensazione di «crisi permanente» [Poulain, 2008, Alimentazione, cultura e società, Il Mulino, Bologna].

Le industrie alimentari, così come le realtà istituzionali e le associazioni di consumatori, avvertono la necessità di rassicurare il consumatore fornendogli nuove garanzie, certificazioni di qualità, nuovi criteri di orientamento e di scelta.

Le scelte alimentari (ma non solo) di oggi non indicano più solo il nostro posto all’interno della nostra cultura, della nostra piccola comunità, ma vanno ad evidenziare anche la posizione che vogliamo occupare rispetto al mondo intero, ad una società non più nazionale, né occidentale, ma globale e globalizzata, all’interno della quale ciò che si sceglie di mangiare in Europa avrà delle ripercussioni in Guatemala o in Sri Lanka.

Il potenziale significato di un alimento assume così nuove valenze, diventando se possibile ancora più pregnante e ricco di implicazioni simboliche. Il cibo raccoglie in sé una capacità di realtà nuova, un’efficacia rispetto al mondo economico dei consumi (capacità di indirizzare il mercato) ed al mondo simbolico del consumatore.

I consumi, in quanto «area privilegiata della produzione culturale contemporanea» [Bovone, Mora (a cura di), 2007, La spesa responsabile. Il consumo biologico e solidale, Donzelli Editore, Roma] possono così tradursi in una nuova forma di cittadinanza, di lotta politica, di azione “consapevole e finalizzata”.

Si sente parlare spesso, ultimamente, di consumi “etici”, “responsabili”, “consapevoli”, ecc… Proviamo a definirli meglio. Laura Bovone ed Emanuela Mora hanno individuato tre modelli di responsabilità da parte del consumatore: una «responsabilità verso se stessi (scelta di prodotti per il benessere e la felicità personale, il biologico come scelta salutista); verso gli altri (prodotti che combattono la povertà e sostengono azioni di solidarietà e giustizia, tutti quei prodotti che possiamo definire equi e solidali); verso l’ambiente (consumi ecologici/sostenibili; preferenza per il biologico per motivi ambientali ecc…)».

La frontiera dei consumi consapevoli non solo rassicura rispetto alle paure e alle ansie alimentari che sembrano moltiplicarsi ogni giorno – partendo dalla mucca pazza fino ad arrivare all'influenza aviaria, dall'ossessione per il cibo sano, alle patologie alimentari – ma riplasma le identità in una logica più ampia, che tiene conto di un nuovo rapporto con l’altro, con l’ambiente, con le risorse, di una nuova socialità e di una nuova moralità. Attraverso le scelte alimentari consapevoli, il consumatore si fa portatore non solo della sua realtà presente, ma anche di quella futura, il mondo in cui vorrebbe vivere.

E' dunque oggi indispensabile porsi la domanda: in che mondo vogliamo vivere?


lunedì 11 gennaio 2010

Il cibo come merce e il ruolo della pubblicità


Nelle società cosiddette tradizionali i beni di consumo non solo erano sicuramente in un numero molto ridotto rispetto a quelli a nostra disposizione oggi, ma erano anche meno vari e «lontani». Nelle economie di sussistenza, infatti, lavoro, consumo e scambio erano strettamente legati fra loro ed i consumatori si servivano di oggetti di cui conoscevano perfettamente la provenienza ed il significato.
Nelle società contemporanee occidentali, invece, produzione e consumo sono diventate sfere specializzate e piuttosto separate e, spesso, ci pongono dinnanzi ad oggetti nuovi e sconosciuti, il cui significato ci sfugge.
Come sostiene Roberta Sassatelli, nel testo del 2004 Consumo, cultura e società (edito da Il Mulino, Bologna) «I messaggi pubblicitari e i vari aspetti della commercializzazione delle merci […] servono innanzi tutto a costruire intorno al prodotto un mondo di significati che lo renda effettivamente «consumabile», e cioè significativo per il consumatore»; come dire che se un prodotto è troppo lontano da noi, troppo sconosciuto, è anche 'troppo' inutile.
Il cibo è oggi innanzitutto una merce e come merce viene acquistato per le ragioni più svariate, fra cui il valore culturale a cui viene associato (salute, bellezza, divertimento, affemazione, aggressività, ecc...) e la relativa speranza che, per il principio di incorporazione (vedi post precedenti), consumando il cibo in questione quel valore venga automaticamente assorbito dal sé. «Il cibo è scelto per riflettere a se stessi e agli altri come ci percepiamo o come vorremmo essere percepiti» [Lupton, 1999, L'anima nel piatto, Il Mulino, Bologna].
In questa logica è di primaria importanza il ruolo della pubblicità come promotrice di sfere di significato connesse al bene immesso sul mercato. Quando scegliamo al supermercato una scatola di cioccolatini, una bibita o un minestrone surgelato fra tanti prodotti “uguali, ma diversi” non compriamo semplicemente un alimento, ma anche i valori ad esso associati come l’attrazione sessuale, la gioventù, la salute, l’energia, ecc…
Uno studio condotto dall’Università di Roma Tre [2007 In bocca al lupo. La pubblicità e i comportamenti alimentari dei ragazzi, indagine condotta dal Dipartimento di Scienze dell’Educazione Università Roma Tre in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia, Coptip, Modena.], ha dimostrato come ogni cinque minuti i bambini italiani subiscano, durante l’orario di fascia protetta 16-19, uno spot che li invita a mangiare qualcosa. La televisione sembra giocare sempre di più un ruolo essenziale nella mediazione simbolica della realtà rivolta ai bambini e ai ragazzi, andando a costituire per loro il vissuto più noto esterno alla famiglia. I giovanissimi si configurano sia come protagonisti sia come target privilegiato delle pubblicità: essi sono consumatori immediati, mediatori di consumi con gli adulti di riferimento e consumatori del futuro.
Gli spot televisivi vanno a delinearsi sempre di più come parte di quella che potremmo definire l’educazione (o diseducazione) alimentare dei consumatori del domani.
Il dato piuttosto allarmante emerso dalla ricerca riguarda il tipo di immaginario simbolico che viene associato a prodotti come dolci, cioccolato, medicine, biscotti e Fast Food – questi sono effettivamente i prodotti maggiormente promossi – incrociato con le statistiche che testimoniano una crescita sostanziale dei disturbi alimentari in fase evolutiva, come l’obesità infantile, il diabete, ecc… I valori condivisi su cui fanno leva gli spot italiani sono soprattutto la sicurezza e la semplicità, veicolate dalla prevalenza di contesti casalinghi, ed il divertimento, la felicità e l’entusiasmo suggeriti da atteggiamenti e modelli comportamentali riconducibili alla sfera ludica ed affettiva. Inoltre è da segnalare come la persuasione all’acquisto sia sempre meno concentrata sul prodotto in sé o sul marchio, si insiste piuttosto sull’acquisto come prova di appartenenza ad una comunità immaginaria. «Con lo spot viene proiettata un’immagine futura di come ognuno potrebbe essere grazie a quel prodotto» sostiene ancora la Lupton: attraverso l’incorporazione di un alimento reclamizzato, ci aspettiamo che i valori associati a quel cibo vengano automaticamente trasferiti dal nostro stomaco alla nostra identità.
Il consumatore, però, non è da considerarsi un attore passivo totalmente vittima dei media. Le più recenti teorie sociologiche sostengono che, sebbene fortemente influenzato, esso può, attraverso strategie attive, rielaborare, trasformare, risignificare e fare proprie le merci disponibili per lui sul mercato, contribuendo ad una costruzione della soggettività sempre più personale e variegata rispetto al passato. Certo è che, in un contesto di bombardamento mediatico come quello attuale, la coscienza critica va allenata e stimolata ancor più che in passato.