venerdì 23 settembre 2011

L'altro giorno ho visto un gatto morire

Raramente ci capita di incontrare la morte per strada.
Per quanto possa sembrarci assurdo, se paragoniamo le nostre città a quelle indiane, ad esempio, le riscopriremo improvvisamente pulite, profumate e ordinate. 

Strade di Mamallipuram, Tamil Nadu. Foto di Daria Mascotto, 2011.

A partire dal XIX secolo le innovazioni igieniche in campo alimentare hanno portato all'espulsione graduale e sistematica di morte e decomposizione dalle nostre città. 
Una data per tutte, 1810: espulsione dei macelli dalle mura di Parigi, fra le prime capitali europee ad adottare questo tipo di misure sanitarie, allo scopo di ridurre malattie e infezioni e per consentire un maggiore controllo sulla qualità delle carni.



Non l'acredine della fogna, non la puzza della verdura che marcisce al sole, non l'urlo degli animali accompagnati al macello. Lentamente l'idea che tutto può essere congelato nel nostro frigorifero ultimo modello si sostituisce alla consapevolezza che tutto va e viene. Gli animali non sono più nostri compagni, non vivono più in mezzo a noi, sporcando di sterco le nostre strade, portando con sé mosche e odore di cuoio e stalla. 
La mucca è nel nostro immaginario una signora gentile, magari dal manto lilla, che vive serena e indisturbata fra le verdi montagne svizzere. Non è la stessa cosa che mangiamo! No di certo.
Noi non mangiamo animali, ma bistecche. In loro non c'era vita, non l'abbiamo mai vista. C'è solo un pallido residuo di freddo rosso, avvolto in plastica trasparente e appoggiato sopra un bianco vassoietto croccante. Non c'è nulla di tremendo in questo. Non c'è la morte in questo. Non c'è la separazione, non il sacrificio.
La morte è in esilio, ben rinchiusa oltre le porte del quotidiano. Se ne occupano specialisti del settore. Medici e veterinari. Per tutti gli altri vale la regola: non invecchieremo mai, non moriremo mai. D'altra parte niente ci induce a crederlo.

Eppure, alle volte, l'ineluttabile si rivela con tutta la sua potenza. Il tempo divoratore si para dinnanzi ai nostri occhi impotenti e ci lascia disarmati e piccoli come granelli di polvere.


Sembrerà sciocco, ma l'altro giorno ho visto un gatto morire per la strada.
Era una giornata splendida. Di quei cieli settembrini tersi e larghi, azzurri. Il sole ancora caldo, dalla luce non più bianca, estiva, ma autunnale, aranciata. Una meraviglia.
Esco in bicicletta e mi lascio svegliare dall'aria freddina, fino alla metropolitana rossa, che mi porterà dall'altra parte di Milano.
Lego la bici e voltando la testa i miei occhi vedono una scena che la mia mente non intende immediatamente, ma solo dopo alcuni secondi che mi sono parsi secoli.
In mezzo alla strada c'è un gatto bianco con la schiena tigrata di grigio che si rotola, stira le zampe, le allunga, come in un attacco di epilessia. 
Continuo a guardarlo perché non capisco. Ad un certo punto intravedo il rosso vermiglio sul suo muso e istintivamente mi salgono le lacrime fra le palpebre e mi guardo intorno in cerca di aiuto. 
Tocco il braccio di un ragazzo con le cuffie sulle orecchie. Lui se le leva e guarda. "Non c'è un veterinario qui vicino?". (Pazzesco, ma nessuno osa toccare il gatto. Prenderlo, toglierlo dalla strada!)
Vado a chiedere. Nessuno mi dà troppo attenzione, così torno. 
Lui ha smesso di muoversi. Ha gli occhi spalancati e il muso in una pozza di sangue scuro e ancora vivo. Mi copro la bocca con le mani, non possiamo più fare niente. (Come se mai avessimo potuto fare qualcosa.) 


Kartari mukha mudra - marana hasta (morte).
Daria Mascotto


Un altro ragazzo si avvicina, il primo deve andare a lavorare. Andiamo insieme a cercare la portinaia del palazzo di fronte. Anche io devo andare a lavorare, ma non possiamo lasciarlo lì, così. Eppure non possiamo nemmeno toccarlo (paura di essere contaminati dalla morte?), non è neppure il nostro gatto, in fondo. 
La portinaia sentenzia: "Bisogna chiamare l'AMSA". Specialisti della decomposizione.
Se ne occupa lei, possiamo stare tranquilli. Forse mi vede un po' sconvolta, perché mi suggerisce, prima di tornare alla mia vita normale, di bermi un bel caffè (per dimenticare?). Chissà che strano potere ha il caffè...

giovedì 8 settembre 2011

Il rumore della luce

8 luglio 2011. Sveglia alle sei. Tuk tuk fino alla stazione dei bus.
Al mattino presto Pondicherry è ancora una cittadina tranquilla e quasi silenziosa.

Bus Pondicherry-Chidambaram. Foto di Daria Mascotto, 8 luglio 2011.

Solo il giorno prima le strade buie e disseminate di ostacoli, i clacson continui e la mia improvvisa incapacità di attraversare la strada, le tempie pulsanti per la stanchezza e gli sbalzi termici fra l'hammam esterno e l'aria condizionata a temperature artiche degli interni, mi avevano fatta sprofondare in una disperata voglia di non essere mai partita.
Disagio da straniera e mille paure all'assalto dei miei pensieri.

Prendo posto accanto all'autista, sul sedile del controllore. Ma ancora non lo so.
Sono in India da neanche due giorni.
Due ore di sballottamenti, strombazzamenti da sirene di transatlantici e lacrime mute di lontananza.

Arriviamo. Chidàmbaram è caotica e caldissima ormai: sono già le 10 e il solleone è alto e terribile.
Ci avviamo al Nataraja Mandìr - tempio di Shiva, re della danza - fra le puzze indiane.
Entriamo, sudate e spaesate.
Ci sono molte persone, molti pellegrini dai gesti sconosciuti. 
I brahmini shivàiti chiacchierano nel primo recinto. Sono subito riconoscibili dalla jata, i capelli raccolti a cipolla in cima al cranio e rasati per metà, da sopra le orecchie alla nuca. Sembrano tanti gabber in attesa del rave mistico. Tutti con il cellulare in mano o infilato nel dhoti. Ecco, la tecnologia onnipresente ci ricorda che non siamo precipitate in un mondo parallelo e medievale: siamo proprio nel XXI secolo.

Il tempio è ombroso, cupo.
La gente attende davanti al pràkara più interno e sacro il momento della puja di mezzogiorno. Siede, chiacchiera, intreccia ghirlande di fiori. Oppure compie il giro dei tanti cantucci che ospitano i membri della sacra famiglia del Nataraja -  Ganesha, il dio elefante; Pàrvati, la figlia della montagna. Nandi, il toro sacro - e a ciascuno offre doni, sperando di essere ricambiata.

Siamo le uniche occidentali e tutti ci osservano curiosi almeno quanto noi osserviamo curiose loro.
Incontriamo un solo ragazzo francese, disorientato pure lui.

Gopuram Est, Nataraja Mandir, Chidambaram.
Foto di Daria Mascotto, 8 luglio 2011.
Fuori dalla seconda cerchia di mura, nel primo cortile, il sole è abbagliante. Le pietre su cui camminiamo scalze, sono specchi roventi che riflettono la luce che vibra intensamente dall'alto e dal basso, assordandoci.
Tra mezzogiorno e trenta e le quattro il tempio si richiude nel suo ombroso silenzio per il riposo pomeridiano, lasciando i devoti in balìa del frastuono di Surya e dei suoi cavalli infuocati. Tutti cercano tregua tra le colonne più ariose, per mangiare o dormire in terra.

Siamo alla deriva in un oceano di luce. 
Eppure dobbiamo apparire molto buffe, strambe come siamo: bianche vestite all'indiana che ripassano coreografie di Bharata Natyam nell'attesa che si riaprano le porte. 
Qualcuno viene a parlare con noi. Ridiamo tanto, in una lingua franca non verbale, mischiata a inglese e tamìl. Rientriamo così nel palazzo di Shiva di buon umore. Anche la luce è cambiata. Il sole è sceso lasciando l'aria più quieta.
La danza del tempio ricomincia. Nuove ghirlande, nuove carezze di curcuma e ghee, nuovi saluti ad Agni a mani giunte. 
Nuova attesa. Nuova presenza. Nuovo stare. 
Ecco cosa dobbiamo imparare dall'India, questo luogo così lontano da tutto ciò a cui siamo abituate. A stare. Stare al centro, mentre tutto intorno vortica di opposti.
In equilibrio tra l'entusiasmo e la disperazione, tra il silenzio dell'ombra e il rumore della luce.

Sulla carretta del ritorno cantiamo e danziamo, sporche e sudate, meno sole.

lunedì 5 settembre 2011

Gana Vandanam

Seguire la via del Bharata Natyam Yoga è la costante ricerca del dare ritmo alle emozioni.

Il suono di Siva fa fremere il petto e gli occhi si spalancano.
Il tala nei piedi rapisce la mente.
Il sonno e la luce balenano insieme.
Il tintinnio delle cavigliere e i colori delle vesti sono gioia che trabocca.
Grazie a tutti coloro che, ancora oggi, vivono vibrando.
Aum.


Shiva Nataraja, particolare. Foto di Daria Mascotto, 2011.