martedì 7 agosto 2012

Il cibo come linguaggio tra uomini e Dei. L’esempio del Naivedya nell’India del Sud.

L’alimentazione è una necessità biologica ineludibile. A partire dalla constatazione che nutrirsi è pratica quotidiana dell’uomo, notiamo tuttavia che le diverse società, nel corso dei secoli e nelle tante regioni della terra, non hanno optato - e continuano a non farlo oggi - in favore delle medesime scelte alimentari. Potremmo anzi affermare che i diversi adattamenti dietetici dell’uomo siano quanto di più vario ci sia sulla terra. Il cibo, infatti, oltre a tradursi in energia per l’organismo, costituisce uno strumento simbolico eccezionale che ben si presta a segnare e distinguere identità (geografiche, culturali, sociali, religiose, ecc…), tempi (settimanali, stagionali, annuali, rituali, ecc…) e legami (affettivi, sociali, ecc…). 

L'atto alimentare si colloca sul sottile confine tra natura e cultura.

Offerta rituale sul Kauveri, Srirangam.
Foto di Valeria Scalvini, luglio 2011.

Le credenze religiose sono tra i primi fattori ad influire sulle scelte alimentari di una comunità: ne regolano tempi e modi, sanciscono normative – cosa si può mangiare e cosa no – , catalogano gli alimenti in commestibili/non commestibili, puri/impuri, sacri/profani.
Nella cultura indiana – dal periodo vedico sino alla contemporaneità – il cibo è sempre stato un contenitore di significati particolarmente fecondo. E’ l’ingrediente primario delle pratiche rituali e cultuali, delle transazioni sociali, delle interazioni familiari, è un evidenziatore delle barriere costituite dalle caste, è un principio di classificazione e di riflessione teologica e molto altro ancora. Esso permea letteralmente ogni aspetto del complesso e sfaccettato mosaico culturale indiano.
Per quanto riguarda lo studio dell’alimentazione applicato alle religioni, l’induismo è un laboratorio inesauribile di materiale di ricerca. Purtroppo in Italia l’analisi della cultura alimentare asiatica, ed indiana in particolare, non è stata affrontata in modo sistematico dagli studiosi. Le pubblicazioni specialistiche, perlopiù in inglese e in tedesco, spesso non vengono neppure tradotte e sono di difficile reperimento. Per questa ragione mi è stato estremamente difficoltoso raccogliere informazioni attendibili ed esaurienti sull’argomento. Sono infatti riuscita ad entrare in possesso solo di pochi articoli, che pur mi sembrano sufficienti per dimostrare quanti significati siano veicolati attraverso il cibo all’interno della cultura religiosa induista.
In particolare vorrei illustrare l’esempio delle offerte rituali (naivedya) del Sud dell’India con l’intento di evidenziare come il cibo possa arrivare a costituire una sorta di linguaggio di
comunicazione tra uomini e mondo del sacro1. Io stessa, nel mio viaggio in Orissa nell’inverno del 2006-07 e nel più recente in Tamilnadu, Kerala e Karnataka nell'estate 2011, ho potuto osservare quanto l’importanza degli alimenti e del loro significato sociale e religioso sia profondamente presente e forte tuttora. Tuttavia le mie osservazioni, non essendo state sistematiche, non possono essere qui oggetto di discussione. Spero possano esserlo in futuro.


L’offerta rituale come linguaggio

Quando un fedele di qualunque religione prega, ritiene, o spera, che le proprie parole sussurrate o pensate possano giungere all’orecchio di Dio. Crede in qualche modo di comunicare con il trascendente. Allo stesso modo, come ci hanno mostrato i grandi strutturalisti e linguisti del Novecento, possiamo presumere che quando si offre del cibo agli Dei si creda di trasmettere loro un messaggio chiaramente decifrabile.
In India esistono innumerevoli varietà di naivedya, ognuna delle quali è caratterizzata da diversi alimenti, ingredienti, combinazioni, forme, colori, proprio come una frase può avere elementi grammaticali e sintassi differenti.
Ad un primo livello di lettura, l’offerta di cibo è la diretta espressione della dedizione e dell’amore del devoto che accudisce e nutre la divinità. Attraverso l’offerta, il fedele può ringraziare la divinità per un dono ricevuto o può proporre uno scambio per riceverne uno. Ad un livello più profondo la struttura del naivedya può rivelarci importanti informazioni circa l’identificazione di divinità del pantheon e festività dell’anno sacro indù, sottolineando ad esempio opposizioni tra Dei o gruppi di Dei, tra Dei e Dee, tra eventi fausti o infausti.
Vorrei soffermarmi proprio su queste due funzioni svolte dal cibo del naivedya: identificare e opporre.


Identificare

Lo studio di una religione ha in genere inizio con l’esame delle divinità e delle cerimonie che la caratterizzano. L’identificazione delle molteplici figure divine che popolano l’induismo può essere facilitata dall’iconografia, e questo vale specialmente per la triade sacra principale (Brahma, Vishnu e Shiva con le relative spose): ogni divinità possiede infatti attributi propri come specifiche posture del corpo, un personale vahana (veicolo), degli emblemi tenuti nelle mani, vestiti e ornamenti, piante o fiori. Non tutti gli dei, però, possiedono un alimento con il quale possono essere identificati e solo alcuni hanno preferenze gastronomiche ben definite. Vediamone alcune.

Palla di burro di Krishna, Mamallapuram.
Foto di Daria Mascotto, luglio 2011.

Krishna danzante, Mamallapuram.
Foto di Daria Mascotto, luglio 2011.
Il burro è certamente un indicatore di Krishna, uno dei più amati e venerati avatara (letteralmente ‘discese’, incarnazioni) di Vishnu. Tra le più frequenti immagini iconografiche di Krishna nell’India del Sud troviamo Balakrishna (Krishna bambino), rappresentato solitamente mentre regge una ciotolina di burro nella mano sinistra e con la destra se ne porta alla bocca una porzione. Il Krishna danzante è invece generalmente raffigurato con una palla di burro nella mano destra. L’associazione tra il burro e la figura di Krishna è diffusa in tutto il subcontinente indiano e deriva presumibilmente dal racconto mitico che vede il dio identificato con un pastore di armenti. Un altro alimento a lui associato è il laddu (un dolcetto di forma rotonda). Una popolare immagine di Balakrishna lo ritrae mentre prende in mano un laddu da un piatto di offerte posto davanti a lui.



Ganesh, Hampi.
Foto di Daria Mascotto, agosto 2011.
 Ganesh (o Ganapati), Signore degli Ostacoli, figlio di Shiva e della sua sposa Parvati, è considerato un gran mangiatore e gli sono accostati diversi alimenti. Iconograficamente compare come un uomo con la testa di elefante, una grande pancia rigonfia a testimonianza della sua golosità e spesso nelle mani, tra gli altri simboli, troviamo un’arancia selvatica, una canna da zucchero e una mela di bosco. Questi tre elementi ricorrono nelle sue offerte. I devoti di Ganesh affermano che egli ha una predilezione per le ghiottonerie, ed il dolce modaka compare nelle sue più comuni rappresentazioni. Esiste un mito che mette in relazione Ganesh e Krishna proprio grazie a questo dolcetto: Devaki, la madre di Krishna, un giorno pose un modaka davanti ad un idolo di Ganesh. Conoscendo la golosità del proprio figlio, lo tenne fermo dietro la sua schiena con una mano per evitare che rubasse l’offerta. A quel punto, con grande sorpresa di tutti, la statua di Ganesh prese vita e con la proboscide mise il modaka nella bocca del bambino.

La dea Lalita (una delle tante forme di Parvati) costituisce un caso particolare, poiché non le sono associati cibi specifici solo in funzione rappresentativa. Premettendo che recitare i molti nomi di una divinità (sahasranama) equivale nella tradizione induista a compiere un’offerta rituale, notiamo che tra gli appellativi di Lalita compaiono nomi che incorporano nell’identità della Dea i suoi gusti culinari (“Colei che ama il latte”, “Colei che ama i cibi ricchi”, “Colei che ama il riso mischiato ai ceci verdi”, ecc…). I cibi sono qui parte costituente della divinità, non solo simboli di lei, ma veri e propri elementi identificatori.

Non solo l’identità di alcune divinità è strettamente legata agli alimenti. Anche le ricorrenze festive hanno, infatti, le proprie ricette caratterizzanti, utili a definire gastronomicamente e simbolicamente ciascun giorno sacro e a scandire il calendario dell’anno liturgico.
Molte festività indiane sono direttamente collegate ad un essere divino specifico ed in questi casi, se il Dio o la Dea hanno preferenze alimentari definite, i manicaretti dell’occasione saranno conformi ai loro gusti. Se la festa non è in onore di una figura sacra particolare, allora i devoti possono scegliere di offrire naivedya alle divinità legate alla loro famiglia, alla loro setta, regione o quant’altro, in ogni caso ogni festa è connessa ad un cibo specifico. Può capitare che tra i devoti prendenti parte ad un festeggiamento non sia ben chiaro quale sia la divinità da onorare, ma non c’è mai alcun dubbio sulla ricetta da realizzare. La festa del Tirvatirai in Tamilnadu alle volte è detta essere in onore di Shiva e a volte in onore di Parvati, ma l’offerta rituale resta in entrambi i casi un pasticcio a base di riso dolce, il kali. Sempre in Tamilnadu il primo giorno del festival del raccolto (Ponkal) è chiamato Bhogi e non è in onore di nessun Dio. Ciononostante tutti coloro che partecipano ai festeggiamenti sanno perfettamente quale cibo debba deve essere preparato ed offerto alla divinità tutelare di ciascuna famiglia: il poli (un dolce ripieno).


Opporre

La tendenza a suddividere la realtà che ci circonda in opposizioni binarie sembra essere presente in tutte le società umane. Nella religione induista possiamo distinguere altresì numerose coppie di opposti e complementari come ad esempio la distinzione tra puro e impuro, tra divinità maschili e femminili, tra Shiva il distruttore e Vishnu il conservatore, tra eventi fausti ed eventi nefasti. Ovviamente le coppie antitetiche non si esauriscono qui, ma nel caso di queste quattro opposizioni in particolare i devoti di tutta l’India si troverebbero concordi nell’affermare che ad esse debba corrispondere una distinzione dal punto di vista alimentare.

Shiva, Madurai.
Foto di Daria Mascotto, luglio 2011.
La separazione tra divinità pure e divinità impure2 non è solo sottolineata dalle offerte rituali, ma ne è in qualche modo determinata. Le divinità pure accettano solo offerte vegetariane e il più delle volte sono considerate benevolenti e pertanto meritevoli di essere propiziate con il naivedya. Al contrario quelle impure, assetate di sangue, amanti della carne, dell’alcol, del tabacco e dell’hashish, sono portatrici di sciagure e di malattie e perciò indegne di alcuna offerta propiziatoria. Esistono casi di ambiguità. Shiva, ad esempio, corrisponde al principio disgregativo dell’universo, alla forza centripeta che tutto dissolve, ma che allo stesso tempo prepara il cosmo alla creazione successiva. E’ dunque sì una divinità terrifica, ma che può dispensare anche grande gioia e soprattutto può portare i suoi fedeli alla moksha (liberazione). La tendenza è perciò quella di adorare il suo aspetto benevolo3, ingraziandolo con offerte vegetariane.



La distinzione tra divinità pure e impure può essere espressa anche semplicemente alterando un singolo elemento di un’offerta identica. Nei templi di Udipi, in sud Karnataka, di Shri Janardana e Mahakali sono adorati, nel primo, il puro Dio Vishnu e, nel secondo, l’impura Dea Kali. A parte i sacrifici di sangue offerti a Kali e ovviamente non a Vishnu, i naivedya portati dai fedeli sono perlopiù gli stessi: piatti vegetariani a base di riso in entrambi i casi. Tuttavia una distinzione c’è: il riso preparato per Vishnu dev’essere grezzo e cotto, mentre a Kali è consacrato tendenzialmente del riso parboiled. Questo tipo di distinzione sancisce non solo la purità/impurità delle divinità, ma stabilisce tra le due una gerarchia. Il riso parboiled è infatti considerato un cibo quotidiano, profano, mentre quello grezzo contiene un elevato grado di sacralità, in quanto viene tipicamente impiegato in occasioni cerimoniali.

Vishnu, Pondicherry.
Foto di Daria Mascotto, luglio 2011.
L’opposizione che vede da una parte divinità femminili e dall’altra divinità maschili nel pantheon induista non è così netta come quella tra pure ed impure. Spesso le Dee sono infatti assimilate agli Dei in quanto loro spose, ed entrambi vengono venerati in un unico culto come potenza fecondatrice virile e potenza generatrice femminile. A testimonianza di questa tendenza ad unire marito e sposa in un unico principio cosmico si veda la figura di Ardhanari (per metà uomo/Shiva e per metà donna/Shakti). Gli Dei e le loro spose ricevono perciò generalmente le medesime offerte rituali, le differenze sono spesso di ordine quantitativo più che qualitativo e sottendono una classificazione di tipo gerarchico. Differenze qualitative possono tuttavia comparire talvolta. Nel tempio di Srirangam, in Tamilnadu, in aggiunta alle offerte che Vishnu e Lakshmi condividono, l’appam (un dolce fritto) è riservato allo sposo e la pittu (un dolce legato con lo spago) è riservato alla sposa.


Vishnu e Shiva sono le due figure sacre principali dell’induismo. Le sette vishnuite e shivaite, pur non essendo a livello teologico diametralmente opposte, si contendono il primato per numero di devoti in India. Ci si aspetterebbe un’altrettanto forte opposizione alimentare tra le offerte consacrate alle due divinità. Una contrapposizione viene esplicitata dai sacerdoti, in genere, quando un naivedya ordinario non compare nel tempio di uno dei due Dei. I brahmini tendono a motivare il fatto sostenendo che il cibo mancante sia l’offerta tipica del dio rivale. La natura più benevola di Vishnu trova riscontro solitamente in naivedya sontuosi ed elaborati, mentre a Siva, duplice poiché potenzialmente terrifico e distruttore, sono riservate offerte più frugali, spesso a base di riso scondito. La distinzione tra la gentilezza dell’uno e il carattere più violento dell’altro è di frequente sottolineata dalle spezie contenute nelle rispettive offerte: nelle zone dell’estremo sud dell’India, né il peperoncino verde né quello rosso, i più piccanti, sono considerati accettabili per Vishnu, al contrario Shiva mostra una predilezione per quello verde.
Come abbiamo già visto nel caso delle divinità maschili/femminili, anche per l’opposizione Vishnu/Shiva possiamo trovare piccole variazioni distintive all’interno di un naivedya identico. Il tempio di Tjakarayanagar, a Chennai, ospita gli idoli delle due divinità in strutture separate, vishnuiti e shivaiti rendono loro omaggio portando ad entrambe uenponkal (riso speziato con ceci verdi) e riso con cagliata, ma il riso al tamarindo in aggiunta è esclusiva di Vishnu mentre quello bianco prerogativa di Shiva.
Più in generale, possiamo affermare che l’offerta di cibo è maggiormente frequente nei culti vishnuiti, mentre Shiva viene blandito, più che con piatti sontuosi, con abbondanti abhiseka (unzioni e abluzioni dell’idolo – che comunque coinvolgono sostanze alimentari).

Quando si tratta di esprimere la gioia per un avvenimento fausto piuttosto che la tristezza per uno nefasto il cibo ricopre un ruolo importante. L’opposizione cerimoniale tra le due tipologie di eventi, implicante anche concetti come purità/impurità, è normalmente espressa attraverso colori o fiori con significati simbolici contrastanti. Nei rituali del caso, specifici alimenti fanno la loro comparsa. Un esempio per tutti: lo sraddha è una cerimonia funebre praticata dalle caste più alte ed include l’offerta di pinda (letteralmente ‘palla’, si tratta di una palla, appunto, di riso cotto). Il significato della parola pinda è a tal punto associato all’evento luttuoso che, per quanto il termine sia generico, non compare mai in riferimento a nessun altro cibo di forma rotonda. Allo stesso modo, nessuno userebbe mai grani di sesamo nero per festeggiare una ricorrenza felice. Il sesamo nero è infatti un alimento considerato indicatore rituale di eventi negativi. In Karnataka la melanzana non dev’essere mai usata per uno sraddha, probabilmente per non legare un vegetale così tanto utilizzato nella cucina locale all’idea d’impurità connessa al funerale. Per la stessa ragione gli alimenti tipici dello sraddha sono inaccettabili come offerte per le divinità.


Per concludere

In questo breve testo ho cercato di esplicitare attraverso alcuni esempi insoliti quanto cibo e credenze siano intimamente interconnessi. Mi rendo conto di aver scelto un’area religiosa estremamente complessa e variegata, che certamente non ho potuto trattare con completezza né esaustività. Il politeismo induista, a causa delle difficoltà oggettive inevitabilmente connesse alla trattazione delle sue innumerevoli forme e varianti locali, della sua profondità teologica e filosofica e della sua storia millenaria, è spesso, per timore o per rispetto, taciuto. Tuttavia il mio intento non era certo quello di affrontare l’analisi di un intero sistema religioso, ma, più semplicemente, quello di riflettere su quanto gli alimenti siano contenitori simbolici estremamente efficaci, adatti ad identificare, omaggiare, ricordare, rappresentare, distinguere divinità e festività, a segnalare le loro caratteristiche e peculiarità all’interno di un contesto religioso come quello induista.
Mi sono soffermata sulle funzioni, svolte dal naivedya, di identificare ed opporre.
L’offerta rituale ci mostra come proprio l’impiego di specifici alimenti sia radicato nel pensiero religioso del devoto, che conosce le preferenze gastronomiche delle divinità, i tempi, i luoghi e le quantità in cui determinate ricette devono essere preparate e con quali ingredienti. Per quanto riguarda i ritmi festivi, paradossalmente, abbiamo visto come possa essere un alimento a definire una festa sacra, ancor più che la divinità protagonista dei festeggiamenti, o come il legame tra un cibo specifico ed un’occasione cerimoniale possa essere saldo a tal punto da impedirne l’impiego in qualunque altra situazione. Insomma, il devoto sa cosa il Dio gradisce e cosa non accetta, e che comunica con lui, come in una preghiera, attraverso un linguaggio simbolico veicolato dagli alimenti.


Bibliografia

Bellinger J. Gerhard, 1997 [1989], Enciclopedia delle religioni, Garzanti, Cernusco sul naviglio (MI), s.vv.: Brahmanesimo, pp. 76-84; Induismo, pp. 399-472.

Daniélou Alain, 2006 [2004], Miti e dei dell’India. I mille volti del pantheon induista, BUR (edizione su licenza temporanea di Edizioni di red), Novara.

Eichinger Ferro Luzzi Gabriella, 1977, Ritual as a Language: the Case of South Indian Food Offerings, “Current Anthropology”, Vol. 18, No. 3 (Sep., 1977), pp. 507-514.

Parry Johnatan, 1985, Death and Digestion: the Symbolism of Food and Eating in North Indian Mortuary Rites, “Man”, n.s., Vol. 20, No. 4 (Dec., 1985), pp. 612-630.



1 La complessità filosofica e la pluralità delle forme assunte dall’induismo nell’arco di secoli di storia non può essere sintetizzata in poche pagine e non ne farò pertanto oggetto di discussione. In questa sede si rifletterà sul legame tra religione ed alimentazione attraverso un caso specifico di fenomeno: l’offerta rituale studiata sul campo da Gabriella Eichinger Ferro Luzzi negli stati del Tamilnadu, Kerala, Karnataka ed Andhra Pradesh tra il 1974 e il 1975. Gli alimenti offerti nel naivedya, infatti, si prestano a rappresentare/omaggiare/definire/ricordare/distinguere divinità, feste, eventi della vita ed in questo senso possono essere presi qui come esempio paradigmatico di rapporto religione-alimentazione.
2 Le divinità pure corrispondono sostanzialmente a tutte quelle che compaiono nella tradizione dei testi in sanscrito dell’induismo, mentre quelle locali, dei villaggi o delle regioni, sono generalmente considerate impure.
3 Shiva, l’appellativo più diffuso del Dio, significa appunto ‘benevolo’.