mercoledì 2 dicembre 2009

Il cibo e il sè: identità

Il corpo umano è una realtà vivente e dinamica, non statica.

Proviamo a figurarci le evoluzioni e le trasformazioni che esso subisce nell’arco di una vita: da cellula indifferenziata, a feto, a bambino di pochi chili capace di crescere a vista d’occhio. Con la pubertà vedremo svilupparsi le forme tipiche dell’uomo e della donna adulti, ciascuno con le proprie caratteristiche sessuali. La maturità e la vecchiaia non faranno infine altro che continuare quel processo di incessante trasformazione iniziato con il concepimento.

Tutto questo è estremamente naturale. Quanto c’è di più naturale di ciò che è inscritto nel nostro codice genetico? Tuttavia il nostro corpo è capace di veicolare segnali e significati che vanno ben oltre la ’naturalità’, per sconfinare nella dimensione più propriamente culturale.

Non è difficile notare la varietà delle forme e dei gesti che ci circondano, le molteplici risposte creative e le strategie che ciascuno di noi mette in atto per modellare il proprio corpo ad immagine e somiglianza del proprio gusto e del proprio progetto identitario. Potremmo pensare al corpo come un work in progress.

E' intuibile quanto le scelte alimentari siano parte integrante di questo progetto.

La sociologa Deborah Lupton [1996, L’anima nel piatto, Il Mulino, Bologna] afferma che «le abitudini e le preferenze alimentari sono pratiche fondamentali del sé, dirette alla cura di sé attraverso il costante nutrimento del corpo con cibi culturalmente considerati appropriati che, oltre a costruire una fonte di piacere, agiscono simbolicamente per rivelare l’identità di un individuo a se stesso e agli altri». Il cibo e l’alimentazione, letti in questo senso, appaiono elementi centrali per la soggettività, il senso del sé e la «personificazione» – ossia la costruzione della propria persona in senso fisico e simbolico –, in quanto da un lato creano la persona sotto il profilo materiale, corporeo e biologico, dall’altro lo modellano dal punto di vista culturale, morale, etico o spirituale.

Se ormai siamo tutti più o meno coscienti di come le proteine siano i ‘mattoni’ del nostro organismo, i carboidrati la ‘benzina’ e così via, o meglio, se siamo tutti certamente d’accordo sul fatto che il cibo ci occorre da un punto di vista nutrizionale, non è altrettanto diffusa la consapevolezza di quanto sia ugualmente indispensabile ed influente per noi da un punto di vista metafisico.

A questo proposito ci è utile il concetto di incorporazione sviluppato dal sociologo francese Fischler nel corso dei suoi lavori degli anni ’80, raccolti nel saggio dal titolo L'Onnivoro, edito da Mondadori nel 1992. Secondo Fischler gli alimenti – a differenza degli altri beni acquistabili sul mercato contemporaneo – non si limitano ad essere consumati, ma, attraversando la bocca, porta liminale del corpo, entrano a far parte del corpo stesso e diventano così parte integrante dell’identità di colui che mangia. Sul versante psicologico mangiare implicherebbe perciò l’assunzione delle qualità dell’oggetto mangiato anche e soprattutto a livello simbolico. Come dire: chi mangia diviene ciò che mangia.

In termini antropologici questo va a significare che l’uomo mangiatore, inserito in uno spazio alimentare culturalmente determinato, incorpora insieme al cibo che inghiotte anche tutto il sistema di valori che esso rappresenta.

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