martedì 11 dicembre 2012

Storia di un corpo, Daniel Pennac


"E' che proprio sul corpo l'uomo deve imparare tutto, assolutamente tutto: impariamo a camminare, a soffiarci il naso, a lavarci. Non sapremmo fare niente di tutto questo se qualcuno non ce l'avesse spiegato. All'inizio l'uomo non sa niente. Niente di niente. […] Le uniche cose che non ha bisogno di imparare sono respirare, vedere, sentire, mangiare, pisciare, cagare, addormentarsi e svegliarsi. Ma neanche. Sentiamo, ma dobbiamo imparare ad ascoltare, vediamo ma dobbiamo imparare a guardare. Mangiamo ma dobbiamo imparare a tagliare la carne. Caghiamo ma dobbiamo imparare a farla nel vasino. Pisciamo ma quando non ci pisciamo più sui piedi dobbiamo imparare a prendere la mira. Imparare vuol dire prima di tutto imparare a essere padroni del proprio corpo."

Daniel Pennac, Storia di un corpo, Feltrinelli, Milano 2012.
Illustrazione di copertina: Duccio Boscoli.


Un diario sul corpo. Sulle sensazioni, le scoperte e le trasformazioni. Dolce, semplice e geniale. Da leggere.

domenica 11 novembre 2012

Il corpo e le azioni nel Bharata Natyam. Incontri introduttivi al teatro-danza dell'India del Sud

Domenica 9 dicembre 
16h00 - 18h00
@Polisportiva Popolare ZAM
via Olgiati 12, Milano


L'incontro sarà così strutturato:

- accoglienza e riscaldamento
- rito di apertura: bhoomi namaskar (sequenza rituale di apertura, saluto alla terra e ringraziamento)
- esplorazione del movimento e della sua antitesi: l'immobilità nella forma
- mandala bheda: posizioni dinamiche della danza indiana
- sequenze di movimento: principali azioni del bharata natyam e prime famiglie di adavu (battere, tendere, saltare)
- sequenza di mudra (forme/gesti espressivi delle mani)
- rito conlcusivo: rilassamento e bhoomi namaskar

Si pratica a piedi nudi e con vestiti comodi che consentano movimenti ampi.

Portate carta e penna per segnare eventuali appunti.

costo del seminario: 15 euro + tessera uisp


info e iscrizioni:
neraoliva (at) hotmail.com
3403197022



giovedì 8 novembre 2012

Sintassi

Fissando le sue equazioni
un uomo dichiarò che l'universo aveva avuto un inizio.
C'era stata un'esplosione, disse.
Un'esplosione primordiale e l'universo era nato.
E si sta espandendo, aggiunse.
Calcolò perfino la durata della sua esistenza:
dieci miliardi di rivoluzioni della Terra intorno al sole.
L'intero globo applaudì;
stabilirono che i suoi calcoli erano scienza.
Nessuno pensò che suggerendo l'idea dell'inizio dell'universo
quell'uomo aveva semplicemente rispecchiato la sintassi della sua lingua madre;
una sintassi che esige un inizio, come la nascita, e uno sviluppo, come la morte, in qualità di fatti.
L'universo è nato
e sta invecchiando, ci assicurò l'uomo, e morirà, così come muoiono tutte le cose,
come lui stesso morì dopo aver confermato a livello matematico
la sintassi della sua lingua madre.

L'altra sintassi

L'universo è davvero iniziato?
La teoria dell'esplosione primordiale è esatta?
Queste non sono domande, anche se possono apparire tali.
E' la sintassi che ha bisogno di un inizio, uno sviluppo e una fine come affermazioni del fatto che solo la sintassi esiste?
Questa è la vera domanda.
Ci sono altre sintassi.
Ce n'è una, per esempio, che richiede che vari livelli di intensità siano accettati come fatti.
In questa sintassi niente inizia e niente finisce;
di conseguenza, la nascita non è un evento chiaro e ben definito,
ma uno specifico tipo di intensità,
così come lo sono la maturità e la morte.
Esaminando le sue equazioni, un uomo di tale sintassi scopre
di aver calcolato una varietà sufficiente di livelli di intensità
per poter affermare con certezza
che l'universo non è mai iniziato
e non finirà mai,
ma è passato, sta passando e passerà
attraverso infinite fluttuazioni di intensità.
Quell'uomo potrebbe giungere alla conclusione che l'universo stesso
è il carro dell'intensità
e che ci si può salire a bordo
per viaggiare attraverso cambiamenti senza fine.
Egli trarrà tale conclusione, e molte altre,
senza magari rendersi conto
che sta semplicemente confermando
la sintassi della sua lingua madre.

Carlos Castaneda, Il lato attivo dell'infinito.

sabato 27 ottobre 2012

Tracce


Margaret H'Doubler (1889-1972), USA.
Biologa, pedagogista.

Margareth H'Doubler, una lezione del 1965

In una vera democrazia la possibilità di realizzare veramente se stessi - di ridere, creare, godere della bellezza, sentirsi in armonia con il ritmo dell'universo - dovrebbe essere un'opportunità concessa ad ogni individuo e in particolar modo ad ogni bambino, 1925



Kathrine Dunham (1909-2006), USA.
Danzatrice, coreografa, antropologa, scrittrice, attivista politica.

Kathrine Dunham

I danzatori, come tutti gli artisti, sono fatti per provare sensazioni e per farle sentire agli altri. I danzatori hanno il grande dono del movimento e della forma. Essi vivono in maniera olistica, con il corpo, la mente e lo spirito fusi in atti allo stesso tempo unici e continui. Non smettete di danzare.


Anna Halprin, (1920), USA.
Coreografa, danzatrice, insegnante, terapeuta.

Anna Halprin, fonda nel 1978 il Tamalpa Institute in California.
http://annahalprin.org

L'intero concetto del mio lavoro con i bambini è stato quello di aiutarli ad apprezzare la loro stessa vitalità. Volevo che guadagnassero un senso di fiducia in sé stessi cosicché non fossero preoccupati di ciò che era giusto o sbagliato. [...] Ciò è raggiungibile attraverso l'improvvisazione, poiché nell'improvvisazione tu non sei giusto o sbagliato, semplicemente sei.

Da momento che molti di noi sono oggi alla ricerca di una propria identità spirituale, possiamo, io credo ritornare a danzare per riscoprire un'antica tradizione che potrà porsi al servizio della cultura attuale. Il potere della danza e del corpo contiene risorse che possono dotarci di strumenti utili alla sopravvivenza del nostro pianeta. La nostra connessione alla terra e degli uni agli altri come forme della terra, è il necessario passo successivo. Io credo che questo rappresenti oggi una grandiosa possibilità per la danza. Attraverso la danza possiamo riscoprire un'identità spirituale che abbiamo perduto, e l'opera per rendere questa danza attuale, immediata e necessaria continua ad essere di importanza rilevante. Al momento è la natura, per me, ad essere l'insegnante più grande, la voce più chiara che guida la mia danza. Sentire e fare esperienza della terra mi aiuta a trovare la mia più profonda natura umana e sto dirigendo molta della mia danza verso questo teatro infinito e senza tempo, 2003

Segnalazione


domenica 14 ottobre 2012

11 Novembre 2012: seminario introduttivo alla danza indiana Bharata Natyam @Polisportiva Popolare ZAM


Primo incontro: domenica 11 novembre


ore: 15,45 - 18,00

@ Polisportiva Popolare ZAM
via Olgiati 12, Milano

Per praticare si richiedono abbigliamento comodo (che consenta piegamenti e movimenti ampi) e piedi nudi.








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IL BHARATA NATYAM

Nato come danza rituale, preghiera e meditazione in movimento nell’ambito della millenaria tradizione induista, condivide un profondo legame con la filosofia yoga. Per molti secoli è stato eseguito come parte del rituale quotidiano del tempio dalle Devadasi, danzatrici e sacerdotesse, e solo nel Novecento è diventato un’arte scenica eseguita in tutto il mondo.
Grazie alla profonda consapevolezza del valore estetico come veicolo di crescita spirituale, oggi il teatro-danza indiano è riconosciuto essere fra le più antiche e raffinate discipline corporee esistenti, caratterizzata per complessità tecnica e formale, ricchezza ritmica, poetica, gestuale ed espressiva.
Lo stile Bharata Natyam, originario dell'India del Sud, pone l'accento sulla tensione dinamica, sulla geometria delle linee strutturali, sulle simmetrie e la coordinazione di ogni singola parte del corpo, oltre che sulla mimica facciale e l'esplorazione degli stati d'animo.
L'acronimo Bha-ra-ta sta ad indicare le tre componenti fondamentali dell'arte: BHAva (stato mentale), RAga (scala melodica) e TAla (ciclo ritmico). L'unione di questi elementi compone un linguaggio simbolico di forte impatto emotivo, capace di condurre il danzatore e lo spettatore all'estasi conosciuta come rasa.

LA PRATICA

Dedicarsi allo studio del Bharata Natyam richiede tempo, grande disciplina e dedizione, nella pratica sono coinvolti in egual misura corpo, mente e spirito.
Attraverso l'esercizio fisico (adavu) si rafforza il corpo, si esplorano le sue linee, segmentazioni e possibilità di movimento. Si esercitano senso ritmico, equilibrio, memoria, coordinazione, concentrazione e fiducia.
Approfondendo il linguaggio simbolico delle mani (mudra), delle diverse posture e espressioni del viso (abhinaya), si imparano poi a danzare fiori, animali, divinità, storie e leggende di una cultura millenaria sperimentando nuove modalità di comunicazione e di relazione.

CONTATTI
Daria Mascotto, antropologa e danzatrice.
Fin da piccola studia danza e musica. Nel 2006 incontra la disciplina del teatro-danza indiano in stile Bharata Natyam, che pratica e approfondisce da allora con maestri italiani e stranieri sia in Italia che in India. Dal 2009 i suoi punti di riferimento sono Marcella Bassanesi e Sivaselvi Sarkar.

Se siete interessati a partecipare ai seminari contattatemi:
tel. 340 3197022
e-mail neraoliva(at)hotmail.com
facebook daria.mascotto



venerdì 28 settembre 2012

Ritmo e movimento dall'India per bambini e ragazzi

"Se l'occhio non esercita non vede,
se la pelle non tocca non sa,
se l'uomo non immagina si spegne."
Danilo Dolci




Condotto da Daria Mascotto
danzatrice e antropologa



Percorso di esplorazione corporea e culturale
ispirato ai principi della danza educativa contemporanea
unita alla tradizione del teatro danza indiano






              

Per info e iscrizioni rivolgersi all'insegnante. 
Tel: 340 3197022. E-mail: neraoliva@hotmail.com



lunedì 3 settembre 2012

Bharata Natyam a Macerata Ospitale 2012


All'interno di MACERATA OSPITALE - festival delle arti

PERFORMANCE di DANZA INDIANA BHARATA NATYAM
con la danzatrice Daria Mascotto
e la partecipazione di Adriana Libretti

15 settembre 2012 ore 21h30 - antichi forni, Marcerata



Per informazioni e per il programma completo del festival: 



martedì 7 agosto 2012

Il cibo come linguaggio tra uomini e Dei. L’esempio del Naivedya nell’India del Sud.

L’alimentazione è una necessità biologica ineludibile. A partire dalla constatazione che nutrirsi è pratica quotidiana dell’uomo, notiamo tuttavia che le diverse società, nel corso dei secoli e nelle tante regioni della terra, non hanno optato - e continuano a non farlo oggi - in favore delle medesime scelte alimentari. Potremmo anzi affermare che i diversi adattamenti dietetici dell’uomo siano quanto di più vario ci sia sulla terra. Il cibo, infatti, oltre a tradursi in energia per l’organismo, costituisce uno strumento simbolico eccezionale che ben si presta a segnare e distinguere identità (geografiche, culturali, sociali, religiose, ecc…), tempi (settimanali, stagionali, annuali, rituali, ecc…) e legami (affettivi, sociali, ecc…). 

L'atto alimentare si colloca sul sottile confine tra natura e cultura.

Offerta rituale sul Kauveri, Srirangam.
Foto di Valeria Scalvini, luglio 2011.

Le credenze religiose sono tra i primi fattori ad influire sulle scelte alimentari di una comunità: ne regolano tempi e modi, sanciscono normative – cosa si può mangiare e cosa no – , catalogano gli alimenti in commestibili/non commestibili, puri/impuri, sacri/profani.
Nella cultura indiana – dal periodo vedico sino alla contemporaneità – il cibo è sempre stato un contenitore di significati particolarmente fecondo. E’ l’ingrediente primario delle pratiche rituali e cultuali, delle transazioni sociali, delle interazioni familiari, è un evidenziatore delle barriere costituite dalle caste, è un principio di classificazione e di riflessione teologica e molto altro ancora. Esso permea letteralmente ogni aspetto del complesso e sfaccettato mosaico culturale indiano.
Per quanto riguarda lo studio dell’alimentazione applicato alle religioni, l’induismo è un laboratorio inesauribile di materiale di ricerca. Purtroppo in Italia l’analisi della cultura alimentare asiatica, ed indiana in particolare, non è stata affrontata in modo sistematico dagli studiosi. Le pubblicazioni specialistiche, perlopiù in inglese e in tedesco, spesso non vengono neppure tradotte e sono di difficile reperimento. Per questa ragione mi è stato estremamente difficoltoso raccogliere informazioni attendibili ed esaurienti sull’argomento. Sono infatti riuscita ad entrare in possesso solo di pochi articoli, che pur mi sembrano sufficienti per dimostrare quanti significati siano veicolati attraverso il cibo all’interno della cultura religiosa induista.
In particolare vorrei illustrare l’esempio delle offerte rituali (naivedya) del Sud dell’India con l’intento di evidenziare come il cibo possa arrivare a costituire una sorta di linguaggio di
comunicazione tra uomini e mondo del sacro1. Io stessa, nel mio viaggio in Orissa nell’inverno del 2006-07 e nel più recente in Tamilnadu, Kerala e Karnataka nell'estate 2011, ho potuto osservare quanto l’importanza degli alimenti e del loro significato sociale e religioso sia profondamente presente e forte tuttora. Tuttavia le mie osservazioni, non essendo state sistematiche, non possono essere qui oggetto di discussione. Spero possano esserlo in futuro.


L’offerta rituale come linguaggio

Quando un fedele di qualunque religione prega, ritiene, o spera, che le proprie parole sussurrate o pensate possano giungere all’orecchio di Dio. Crede in qualche modo di comunicare con il trascendente. Allo stesso modo, come ci hanno mostrato i grandi strutturalisti e linguisti del Novecento, possiamo presumere che quando si offre del cibo agli Dei si creda di trasmettere loro un messaggio chiaramente decifrabile.
In India esistono innumerevoli varietà di naivedya, ognuna delle quali è caratterizzata da diversi alimenti, ingredienti, combinazioni, forme, colori, proprio come una frase può avere elementi grammaticali e sintassi differenti.
Ad un primo livello di lettura, l’offerta di cibo è la diretta espressione della dedizione e dell’amore del devoto che accudisce e nutre la divinità. Attraverso l’offerta, il fedele può ringraziare la divinità per un dono ricevuto o può proporre uno scambio per riceverne uno. Ad un livello più profondo la struttura del naivedya può rivelarci importanti informazioni circa l’identificazione di divinità del pantheon e festività dell’anno sacro indù, sottolineando ad esempio opposizioni tra Dei o gruppi di Dei, tra Dei e Dee, tra eventi fausti o infausti.
Vorrei soffermarmi proprio su queste due funzioni svolte dal cibo del naivedya: identificare e opporre.


Identificare

Lo studio di una religione ha in genere inizio con l’esame delle divinità e delle cerimonie che la caratterizzano. L’identificazione delle molteplici figure divine che popolano l’induismo può essere facilitata dall’iconografia, e questo vale specialmente per la triade sacra principale (Brahma, Vishnu e Shiva con le relative spose): ogni divinità possiede infatti attributi propri come specifiche posture del corpo, un personale vahana (veicolo), degli emblemi tenuti nelle mani, vestiti e ornamenti, piante o fiori. Non tutti gli dei, però, possiedono un alimento con il quale possono essere identificati e solo alcuni hanno preferenze gastronomiche ben definite. Vediamone alcune.

Palla di burro di Krishna, Mamallapuram.
Foto di Daria Mascotto, luglio 2011.

Krishna danzante, Mamallapuram.
Foto di Daria Mascotto, luglio 2011.
Il burro è certamente un indicatore di Krishna, uno dei più amati e venerati avatara (letteralmente ‘discese’, incarnazioni) di Vishnu. Tra le più frequenti immagini iconografiche di Krishna nell’India del Sud troviamo Balakrishna (Krishna bambino), rappresentato solitamente mentre regge una ciotolina di burro nella mano sinistra e con la destra se ne porta alla bocca una porzione. Il Krishna danzante è invece generalmente raffigurato con una palla di burro nella mano destra. L’associazione tra il burro e la figura di Krishna è diffusa in tutto il subcontinente indiano e deriva presumibilmente dal racconto mitico che vede il dio identificato con un pastore di armenti. Un altro alimento a lui associato è il laddu (un dolcetto di forma rotonda). Una popolare immagine di Balakrishna lo ritrae mentre prende in mano un laddu da un piatto di offerte posto davanti a lui.



Ganesh, Hampi.
Foto di Daria Mascotto, agosto 2011.
 Ganesh (o Ganapati), Signore degli Ostacoli, figlio di Shiva e della sua sposa Parvati, è considerato un gran mangiatore e gli sono accostati diversi alimenti. Iconograficamente compare come un uomo con la testa di elefante, una grande pancia rigonfia a testimonianza della sua golosità e spesso nelle mani, tra gli altri simboli, troviamo un’arancia selvatica, una canna da zucchero e una mela di bosco. Questi tre elementi ricorrono nelle sue offerte. I devoti di Ganesh affermano che egli ha una predilezione per le ghiottonerie, ed il dolce modaka compare nelle sue più comuni rappresentazioni. Esiste un mito che mette in relazione Ganesh e Krishna proprio grazie a questo dolcetto: Devaki, la madre di Krishna, un giorno pose un modaka davanti ad un idolo di Ganesh. Conoscendo la golosità del proprio figlio, lo tenne fermo dietro la sua schiena con una mano per evitare che rubasse l’offerta. A quel punto, con grande sorpresa di tutti, la statua di Ganesh prese vita e con la proboscide mise il modaka nella bocca del bambino.

La dea Lalita (una delle tante forme di Parvati) costituisce un caso particolare, poiché non le sono associati cibi specifici solo in funzione rappresentativa. Premettendo che recitare i molti nomi di una divinità (sahasranama) equivale nella tradizione induista a compiere un’offerta rituale, notiamo che tra gli appellativi di Lalita compaiono nomi che incorporano nell’identità della Dea i suoi gusti culinari (“Colei che ama il latte”, “Colei che ama i cibi ricchi”, “Colei che ama il riso mischiato ai ceci verdi”, ecc…). I cibi sono qui parte costituente della divinità, non solo simboli di lei, ma veri e propri elementi identificatori.

Non solo l’identità di alcune divinità è strettamente legata agli alimenti. Anche le ricorrenze festive hanno, infatti, le proprie ricette caratterizzanti, utili a definire gastronomicamente e simbolicamente ciascun giorno sacro e a scandire il calendario dell’anno liturgico.
Molte festività indiane sono direttamente collegate ad un essere divino specifico ed in questi casi, se il Dio o la Dea hanno preferenze alimentari definite, i manicaretti dell’occasione saranno conformi ai loro gusti. Se la festa non è in onore di una figura sacra particolare, allora i devoti possono scegliere di offrire naivedya alle divinità legate alla loro famiglia, alla loro setta, regione o quant’altro, in ogni caso ogni festa è connessa ad un cibo specifico. Può capitare che tra i devoti prendenti parte ad un festeggiamento non sia ben chiaro quale sia la divinità da onorare, ma non c’è mai alcun dubbio sulla ricetta da realizzare. La festa del Tirvatirai in Tamilnadu alle volte è detta essere in onore di Shiva e a volte in onore di Parvati, ma l’offerta rituale resta in entrambi i casi un pasticcio a base di riso dolce, il kali. Sempre in Tamilnadu il primo giorno del festival del raccolto (Ponkal) è chiamato Bhogi e non è in onore di nessun Dio. Ciononostante tutti coloro che partecipano ai festeggiamenti sanno perfettamente quale cibo debba deve essere preparato ed offerto alla divinità tutelare di ciascuna famiglia: il poli (un dolce ripieno).


Opporre

La tendenza a suddividere la realtà che ci circonda in opposizioni binarie sembra essere presente in tutte le società umane. Nella religione induista possiamo distinguere altresì numerose coppie di opposti e complementari come ad esempio la distinzione tra puro e impuro, tra divinità maschili e femminili, tra Shiva il distruttore e Vishnu il conservatore, tra eventi fausti ed eventi nefasti. Ovviamente le coppie antitetiche non si esauriscono qui, ma nel caso di queste quattro opposizioni in particolare i devoti di tutta l’India si troverebbero concordi nell’affermare che ad esse debba corrispondere una distinzione dal punto di vista alimentare.

Shiva, Madurai.
Foto di Daria Mascotto, luglio 2011.
La separazione tra divinità pure e divinità impure2 non è solo sottolineata dalle offerte rituali, ma ne è in qualche modo determinata. Le divinità pure accettano solo offerte vegetariane e il più delle volte sono considerate benevolenti e pertanto meritevoli di essere propiziate con il naivedya. Al contrario quelle impure, assetate di sangue, amanti della carne, dell’alcol, del tabacco e dell’hashish, sono portatrici di sciagure e di malattie e perciò indegne di alcuna offerta propiziatoria. Esistono casi di ambiguità. Shiva, ad esempio, corrisponde al principio disgregativo dell’universo, alla forza centripeta che tutto dissolve, ma che allo stesso tempo prepara il cosmo alla creazione successiva. E’ dunque sì una divinità terrifica, ma che può dispensare anche grande gioia e soprattutto può portare i suoi fedeli alla moksha (liberazione). La tendenza è perciò quella di adorare il suo aspetto benevolo3, ingraziandolo con offerte vegetariane.



La distinzione tra divinità pure e impure può essere espressa anche semplicemente alterando un singolo elemento di un’offerta identica. Nei templi di Udipi, in sud Karnataka, di Shri Janardana e Mahakali sono adorati, nel primo, il puro Dio Vishnu e, nel secondo, l’impura Dea Kali. A parte i sacrifici di sangue offerti a Kali e ovviamente non a Vishnu, i naivedya portati dai fedeli sono perlopiù gli stessi: piatti vegetariani a base di riso in entrambi i casi. Tuttavia una distinzione c’è: il riso preparato per Vishnu dev’essere grezzo e cotto, mentre a Kali è consacrato tendenzialmente del riso parboiled. Questo tipo di distinzione sancisce non solo la purità/impurità delle divinità, ma stabilisce tra le due una gerarchia. Il riso parboiled è infatti considerato un cibo quotidiano, profano, mentre quello grezzo contiene un elevato grado di sacralità, in quanto viene tipicamente impiegato in occasioni cerimoniali.

Vishnu, Pondicherry.
Foto di Daria Mascotto, luglio 2011.
L’opposizione che vede da una parte divinità femminili e dall’altra divinità maschili nel pantheon induista non è così netta come quella tra pure ed impure. Spesso le Dee sono infatti assimilate agli Dei in quanto loro spose, ed entrambi vengono venerati in un unico culto come potenza fecondatrice virile e potenza generatrice femminile. A testimonianza di questa tendenza ad unire marito e sposa in un unico principio cosmico si veda la figura di Ardhanari (per metà uomo/Shiva e per metà donna/Shakti). Gli Dei e le loro spose ricevono perciò generalmente le medesime offerte rituali, le differenze sono spesso di ordine quantitativo più che qualitativo e sottendono una classificazione di tipo gerarchico. Differenze qualitative possono tuttavia comparire talvolta. Nel tempio di Srirangam, in Tamilnadu, in aggiunta alle offerte che Vishnu e Lakshmi condividono, l’appam (un dolce fritto) è riservato allo sposo e la pittu (un dolce legato con lo spago) è riservato alla sposa.


Vishnu e Shiva sono le due figure sacre principali dell’induismo. Le sette vishnuite e shivaite, pur non essendo a livello teologico diametralmente opposte, si contendono il primato per numero di devoti in India. Ci si aspetterebbe un’altrettanto forte opposizione alimentare tra le offerte consacrate alle due divinità. Una contrapposizione viene esplicitata dai sacerdoti, in genere, quando un naivedya ordinario non compare nel tempio di uno dei due Dei. I brahmini tendono a motivare il fatto sostenendo che il cibo mancante sia l’offerta tipica del dio rivale. La natura più benevola di Vishnu trova riscontro solitamente in naivedya sontuosi ed elaborati, mentre a Siva, duplice poiché potenzialmente terrifico e distruttore, sono riservate offerte più frugali, spesso a base di riso scondito. La distinzione tra la gentilezza dell’uno e il carattere più violento dell’altro è di frequente sottolineata dalle spezie contenute nelle rispettive offerte: nelle zone dell’estremo sud dell’India, né il peperoncino verde né quello rosso, i più piccanti, sono considerati accettabili per Vishnu, al contrario Shiva mostra una predilezione per quello verde.
Come abbiamo già visto nel caso delle divinità maschili/femminili, anche per l’opposizione Vishnu/Shiva possiamo trovare piccole variazioni distintive all’interno di un naivedya identico. Il tempio di Tjakarayanagar, a Chennai, ospita gli idoli delle due divinità in strutture separate, vishnuiti e shivaiti rendono loro omaggio portando ad entrambe uenponkal (riso speziato con ceci verdi) e riso con cagliata, ma il riso al tamarindo in aggiunta è esclusiva di Vishnu mentre quello bianco prerogativa di Shiva.
Più in generale, possiamo affermare che l’offerta di cibo è maggiormente frequente nei culti vishnuiti, mentre Shiva viene blandito, più che con piatti sontuosi, con abbondanti abhiseka (unzioni e abluzioni dell’idolo – che comunque coinvolgono sostanze alimentari).

Quando si tratta di esprimere la gioia per un avvenimento fausto piuttosto che la tristezza per uno nefasto il cibo ricopre un ruolo importante. L’opposizione cerimoniale tra le due tipologie di eventi, implicante anche concetti come purità/impurità, è normalmente espressa attraverso colori o fiori con significati simbolici contrastanti. Nei rituali del caso, specifici alimenti fanno la loro comparsa. Un esempio per tutti: lo sraddha è una cerimonia funebre praticata dalle caste più alte ed include l’offerta di pinda (letteralmente ‘palla’, si tratta di una palla, appunto, di riso cotto). Il significato della parola pinda è a tal punto associato all’evento luttuoso che, per quanto il termine sia generico, non compare mai in riferimento a nessun altro cibo di forma rotonda. Allo stesso modo, nessuno userebbe mai grani di sesamo nero per festeggiare una ricorrenza felice. Il sesamo nero è infatti un alimento considerato indicatore rituale di eventi negativi. In Karnataka la melanzana non dev’essere mai usata per uno sraddha, probabilmente per non legare un vegetale così tanto utilizzato nella cucina locale all’idea d’impurità connessa al funerale. Per la stessa ragione gli alimenti tipici dello sraddha sono inaccettabili come offerte per le divinità.


Per concludere

In questo breve testo ho cercato di esplicitare attraverso alcuni esempi insoliti quanto cibo e credenze siano intimamente interconnessi. Mi rendo conto di aver scelto un’area religiosa estremamente complessa e variegata, che certamente non ho potuto trattare con completezza né esaustività. Il politeismo induista, a causa delle difficoltà oggettive inevitabilmente connesse alla trattazione delle sue innumerevoli forme e varianti locali, della sua profondità teologica e filosofica e della sua storia millenaria, è spesso, per timore o per rispetto, taciuto. Tuttavia il mio intento non era certo quello di affrontare l’analisi di un intero sistema religioso, ma, più semplicemente, quello di riflettere su quanto gli alimenti siano contenitori simbolici estremamente efficaci, adatti ad identificare, omaggiare, ricordare, rappresentare, distinguere divinità e festività, a segnalare le loro caratteristiche e peculiarità all’interno di un contesto religioso come quello induista.
Mi sono soffermata sulle funzioni, svolte dal naivedya, di identificare ed opporre.
L’offerta rituale ci mostra come proprio l’impiego di specifici alimenti sia radicato nel pensiero religioso del devoto, che conosce le preferenze gastronomiche delle divinità, i tempi, i luoghi e le quantità in cui determinate ricette devono essere preparate e con quali ingredienti. Per quanto riguarda i ritmi festivi, paradossalmente, abbiamo visto come possa essere un alimento a definire una festa sacra, ancor più che la divinità protagonista dei festeggiamenti, o come il legame tra un cibo specifico ed un’occasione cerimoniale possa essere saldo a tal punto da impedirne l’impiego in qualunque altra situazione. Insomma, il devoto sa cosa il Dio gradisce e cosa non accetta, e che comunica con lui, come in una preghiera, attraverso un linguaggio simbolico veicolato dagli alimenti.


Bibliografia

Bellinger J. Gerhard, 1997 [1989], Enciclopedia delle religioni, Garzanti, Cernusco sul naviglio (MI), s.vv.: Brahmanesimo, pp. 76-84; Induismo, pp. 399-472.

Daniélou Alain, 2006 [2004], Miti e dei dell’India. I mille volti del pantheon induista, BUR (edizione su licenza temporanea di Edizioni di red), Novara.

Eichinger Ferro Luzzi Gabriella, 1977, Ritual as a Language: the Case of South Indian Food Offerings, “Current Anthropology”, Vol. 18, No. 3 (Sep., 1977), pp. 507-514.

Parry Johnatan, 1985, Death and Digestion: the Symbolism of Food and Eating in North Indian Mortuary Rites, “Man”, n.s., Vol. 20, No. 4 (Dec., 1985), pp. 612-630.



1 La complessità filosofica e la pluralità delle forme assunte dall’induismo nell’arco di secoli di storia non può essere sintetizzata in poche pagine e non ne farò pertanto oggetto di discussione. In questa sede si rifletterà sul legame tra religione ed alimentazione attraverso un caso specifico di fenomeno: l’offerta rituale studiata sul campo da Gabriella Eichinger Ferro Luzzi negli stati del Tamilnadu, Kerala, Karnataka ed Andhra Pradesh tra il 1974 e il 1975. Gli alimenti offerti nel naivedya, infatti, si prestano a rappresentare/omaggiare/definire/ricordare/distinguere divinità, feste, eventi della vita ed in questo senso possono essere presi qui come esempio paradigmatico di rapporto religione-alimentazione.
2 Le divinità pure corrispondono sostanzialmente a tutte quelle che compaiono nella tradizione dei testi in sanscrito dell’induismo, mentre quelle locali, dei villaggi o delle regioni, sono generalmente considerate impure.
3 Shiva, l’appellativo più diffuso del Dio, significa appunto ‘benevolo’.

giovedì 26 luglio 2012

Essere per lo sguardo. Un'anticipazione di Bourdieu apparsa su Repubblica

Interessante estratto sulla percezione del corpo femminile del grande sociologo francese Bourdieu.
Consiglio di leggere anche il commento riportato sul sito de La Sala dei Tanti, per un'ulteriore riflessione pedagogica e sociale.

Cliccate sull'immagine per ingrandire la pagina, in caso non riusciste a leggere, riporto sotto l'intera trascrizione del testo.

PIERRE BOURDIEU Così dall’antichità a oggi la sottomissione della donna sta nello sguardo
Fonte: PIERRE BOURDIEU - LA REPUBBLICA Martedì 24 Luglio 2012 08:47 

Esistono molti lavori di antropologia comparata relativi all’area mediterranea che tendono a mostrare che la Cabilia, per ragioni storiche, ha funzionato come un luogo in cui si è preservato intatto una specie di inconscio mediterraneo, quell’inconscio rintracciabile sia nei testi della Grecia antica sia della Grecia attuale o dell’Italia del sud, ma anche della Spagna o in genere di tutte le coste del Mediterraneo. La Cabilia ha conservato questo sistema ancora funzionante e di conseguenza ci mette sotto gli occhi il nostro stesso inconscio culturale in materia di mascolinità e di femminilità. Ciò è dovuto alla costanza delle strutture simboliche sulle quali è basata la nostra rappresentazione della divisione del lavoro tra i sessi. E se questa costanza è attestata, si pone la questione delle condizioni sociali che la rendono possibile. In altre parole, che cosa deve esserci di specifico nella logica del simbolico di cui fa parte la rappresentazione dell’opposizione maschile-femminile affinché, al di là dei cambiamenti economici, al di là delle trasformazioni tecnologiche, si possano cogliere somiglianze così profonde tra stati così differenti della società? Se il dominio maschile può perpetuarsi, senza dubbio con alterazioni, ma minori di quanto non si creda, nonostante i cambiamenti tecnologici ed economici sopravvenuti, ciò ha forse a che fare con il fatto che l’ordine simbolico, o quello che chiamo il mercato dei beni simbolici, costituisce un ambito relativamente autonomo rispetto all’ordine economico e all’ordine tecnologico. Esiste una logica specifica dell’economia dei beni simbolici distinta da quella economica, e questa logica può in parte funzionare anche all’interno dell’ordine più strettamente economico (e qui avrei potuto ricordare un bel lavoro sulle hostess a pagamento che in Giappone accompagnano gli uomini a spese delle grandi società, lavoro che mostra come le burocrazie moderne utilizzino le strutture più tradizionali della divisione del lavoro tra i sessi per assolvere funzioni economiche ultra-razionali). La logica specifica dell’economia simbolica si perpetua infatti perfino negli ambiti più strettamente economici come quello delle imprese e viene osservata soprattutto in determinati universi, per esempio quello della produzione culturale (non è un caso se si tratta di uno dei campi più femminilizzati), della letteratura, dell’arte, della televisione, della radio, o quello religioso (dove si incontrano, e ancora una volta non è un caso, molte forme di volontariato femminile), e infine nell’ordine domestico. Andrebbe anche mostrata, ma anche questo richiede troppo tempo e spazio, la logica specifica di questa economia e ciò che fa sì che essa si perpetui anche a dispetto di tutte le necessità economiche nelle società più pervase dalla logica capitalistica. Ma soprattutto è necessario mostrare che alla base della situazione dominata della donna, e del suo perpetuarsi al di là delle differenze temporali e spaziali, c’è il fatto che in questa economia la donna è più oggetto che soggetto. Vanno ricordate a questo punto le famose analisi di Lévi- Strauss sullo scambio delle donne reinterpretandole in maniera tale da introdurvi la dimensione politica (penso al dominio che presuppone lo scambio e che si compie e si riproduce attraverso di esso). Mi soffermerò un attimo solo sul ruolo passivo attribuito alla donna e che mi sembra trovarsi, ancora oggi, a fondamento del rapporto che le donne hanno con il proprio corpo, un rapporto che ha a che fare con il fatto che il loro essere sociale è un essere-percepito, un percipi,un essere per lo sguardo e, se si può dire così, un essere tramite lo sguardo, suscettibile di venire utilizzato, a questo titolo, come un capitale simbolico. L’alienazione simbolica alla quale sono condannate, visto che sono destinate a essere percepite e a percepirsi attraverso le categorie dominanti cioè maschili, si ritraduce nell’esperienza stessa che le donne fanno del proprio corpo e dello sguardo degli altri che è stato messo molto ben in luce e analizzato da una fenomenologa americana di cui non avrò purtroppo il tempo di riassumere l’analisi. Poiché temo molto di essere frainteso, cercherò di spiegarmi con un esempio, rifacendomi a un bell’articolo sulle donne e lo sport. L’articolo mostra che la pratica intensiva di una certa disciplina sportiva determina nelle donne una trasformazione del rapporto con il proprio corpo e permette loro di accedere a una visione di esso che si potrebbe definire maschile; consente loro insomma di avere un corpo per sé invece di essere un corpo per gli altri, dà loro un corpo che è in sé il proprio scopo. Cosa che lascia peraltro chiaramente emergere il fatto che il corpo imposto in tempi normali è dunque un corpo-per-l’altro, un corpo abitato dallo sguardo degli altri, un essere percepito. L’alienazione legata al fatto di avere un corpo visibile, e di trovarsi quindi sempre sotto lo sguardo degli altri, presenta gradi diversi: è tanto più potente quanto più si scende nella gerarchia sociale perché si hanno più opportunità di avere un corpo poco conforme ai canoni dominanti. E trova il proprio limite proprio nelle donne alle quali l’esperienza del corpo come corpo per l’altro si impone con forza particolare per via del ruolo che è loro prescritto nel mercato dei beni simbolici, dove sono oggetto, essere percepito, capitale simbolico, che devono gestire – e di cui sono in qualche maniera le contabili – davanti agli uomini. La trasformazione del rapporto con il corpo attraverso lo sport si accompagna a una trasformazione profonda dei rapporti con gli uomini. Le donne smettono in questo caso di apparire femminili, cioè disponibili, almeno simbolicamente. Il loro rapporto con il proprio corpo è cambiato al punto che non rispondono più alle attese socialmente costituite su che cos’è una donna. Si potrebbero senza dubbio fare considerazioni simili per quanto riguarda il cambiamento del rapporto con il corpo legato alle professioni intellettuali.Un’ultima parola per esprimere un rimpianto: ho ricordato l’esistenza di un’economia dei beni simbolici relativamente autonoma rispetto alle basi economiche della società – un’autonomia relativa, evidentemente –, ma non ho analizzato su che cosa si fonda tale autonomia e il modo in cui si radica nella logica della riproduzione biologica e soprattutto sociale. Non ho mostrato come le nuove tecnologie della riproduzione biologica, per esempio, possono contribuire a trasformare la dicotomia produzione/riproduzione che è il fondamento dell’economia dei beni simbolici. Lungo questa strada, avrei potuto affrontare il problema del nesso tra rapporti sociali tra i sessi e rapporti sociali tra le classi. Ma non posso fare altro che enunciare i titoli dei temi che avrei voluto trattare e fermarmi.


Traduzione di Monica Fiorini Per la traduzione italiana © Lettera Internazionale Questo testo è apparso sulla rivista Cahiers du Genre, 2002/2, n. 33 e pubblicato sul n. 112 di Lettera Internazionale per gentile concessione di Jérôme Bourdieu.





lunedì 25 giugno 2012

La regola del guerriero

"Il primo precetto della regola è che tutto quello che ci circonda è un mistero imperscrutabile.
Il secondo, che noi dobbiamo cercare di svelare i misteri, ma senza sperare di riuscirvi mai.
Il terzo, che un guerriero, conscio dei misteri imperscrutabili che lo circondano, e del proprio impegno a cercare di svelarli, prende il posto che gli è dovuto tra gli altri misteri e si considera uno di loro. Di conseguenza, per un guerriero, il mistero è dell'essere è senza fine, sia che si tratti di un ciottolo, di una formica o di se stesso. E' questa l'umiltà del guerriero. Si è uguali a tutto."

Carlos Castaneda, Il dono dell'Aquila